Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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domenica 27 dicembre 2009

I love radio rock

Un film bellissimo, epico, fuori dagli schemi dell’oggi. Un film d’altri tempi che ci parla d’altri tempi che si impongono come attuali. Un film che ci parla di libertà, che ci fa vivere le imprese eccessive di un gruppo di outsider devianti e senza un protagonista. O meglio, con un protagonista collettivo, perché, come in ogni bella fiaba che si rispetti, abbiamo un eroe, la nave del rock, the radio rock boat, e di contro un immarcescibile e tetro antagonista: l’ingessato governo britannico dell’anno di grazia 1966.
La nave sta fuori, è una radio pirata, e trasmette ore e ore di rock (siamo nella seconda metà dei sixties, ricordate?) con gran godimento del popolo inglese che balla, scopa (o brama di farlo), si ubriaca e gioisce al ritmo mai domo della nave pirata. Il successo è impressionante: più della metà dei sudditi della regina si da all’ebbrezza della musica nuova, si fa presaga di rivoluzioni a venire, trasuda spiriti animali che nessuno tra i lords dell’omonima camera aveva previsto. E’ uno scandalo, un’orrore che va falcidiato, un tripudio di sesso, libertà e trasgressione che va ridotto al silenzio.
Ma chi c’è sulla nostra bellissima nave? C’è un capo o meglio un capocomico tra il depresso l’umoristico e l’algido, peraltro gran leader che tira fuori le palle quando ci vuole. C’è un americano sovrappeso ed esuberante, capace di buttarsi da venti metri nelle gelide acque del Mare del Nord per sostenere una sfida morale. C’è la star dei deejay, amatissimo dalle donne, freddo, sensuale e cattivo come un serpente. C’è il sensibilone che s’innamora e si sposa una donna che ha come unico scopo di intrufolarsi nel letto della star serpentina suddetta. C’è la lesbica d’ordinanza, unica donna a bordo, in quanto non donna, deliziosa e adorabile, che assicura il rancio per tutti. E c’è infine il ragazzo, il giovine di studio, l’apprendista del mestiere e della vita che è stato mandato laggiù da una mamma che compare a metà della storia per rivelare al figliolo che il più ombroso, schivo e malridotto della compagnia è il suo dimenticato e misterioso papà.
Un bel casino, non c’è che dire. Ma è questo il bello. E mentre il nostro ragazzo, conosciuto il papà, si dedica a scoprire le gioie del sesso con la figlia del capo (da lui offertagli con squisito savoir faire aristocratico) la vicenda corre verso la sua tragica conclusione: il governo trova il modo di tagliare le gambe alla radio, gli eventi precipitano e complice una certa prevedibile trascuratezza nella gestione, il vecchio cargo sfiatato si accinge ad inabissarsi per sempre con tutti i suoi eroici, comici, patetici e spaventati guerrieri musicanti e deejay. Ma,colpo di scena, un orda di provvide imbarcazioni guidate da fan, ascoltatori, ragazze innamorate, sostenitori e civili di buoni principi li salva.
La morale l’avete capita, e mi viene da dire soltanto che è bello riscoprirla ogni tanto. La cosa più entusiasmante del film è la sua apparente sgangheratezza. In epoche così tristi va valorizzata: non sappiamo cosa ci porta il domani e nel frattempo è meglio provarci, contro ogni previsione. Per dirla con le parole di Steve Jobs (discorso di Stanford, cercatelo su Youtube): “siate folli, siate affamati”. E che vi guidi l’amore, anzi la passione, per quello che fate.

sabato 26 dicembre 2009

Filosofare

"La filosofia produce ipotesi su questioni indecidibili."

Luciana Regina, Un fare che è pensare

Navigare nel pensiero

"La domanda è la nave del filosofo; la metafora è la sua bussola."

Shlomit C. Schuster, La pratica filosofica

La verità

"La verità non è mai semplice. E' uno dei difetti di voi occidentali credere che sia possibile averla sempre a portata di mano. Non è così. La verità ha bisogno del suo tempo."

Henning Mankell, Il cinese

lunedì 21 dicembre 2009

L’Uomo che Pensa

(Ovvero: a che e a che pro pensare?)

Vi è chi ha parlato di “disincanto del mondo” ed è un dato di fatto che oggi sempre più ci troviamo di fronte a una “vacanza del senso”. Difatti non sappiamo più perché (e quindi come) agire, lavorare, riprodurci, amare, lottare, sacrificarci, insomma non sappiamo più cosa volere e nemmeno se vale la pena, anzi per cosa o per chi… vivere o morire. Storicamente parlando ciò avviene in conseguenza del fatto che le tradizionali agenzie culturali – le chiese e i raggruppamenti politici – sono diventate poco credibili. Ma al di là del costrutto intellettuale, dell’analisi e delle modellizzazioni, ognuno di noi vive il disagio del tempo e scopre a volte con sgomento che la “vacanza del senso”, per quanto condivisa con tanti altri (tutti…?), e quindi non semplicemente ascrivibile alla “psicologia”, è tuttavia un’esperienza che brucia e magari fa anche male, di certo inquieta e sprona alla ricerca di una soluzione.

Ma la “ricerca di una soluzione” scatena immediatamente efficientismi manageriali e velleità da problem solver che a volte è meglio scoraggiare. Non si tratta – in questo caso - di poca cosa. Non si tratta di una dissonanza cognitiva da ridurrre con l’uso più o meno retorico di slide, modelli o make up spirituali più o meno esotici e accattivanti… qui ne va della politica e della religione, anzi delle nostre vite e dei nostri rapporti con gli altri, nel privato e nel pubblico (sappiamo distinguerli… oggi?) o sul lavoro. E neppure la psicoterapia può servire: la via “individuale” non funziona, così come quella “collettiva”, perché è all’incrocio delle due che si situa il punto cieco…. Dunque che fare?

Pensare a quel che ci accade. Questo dobbiamo fare. E, per la prima volta nella storia, senza rete. Un po’ come accadde nell’Illuminismo, quando la gente si riuniva nei caffè, perché ciò che si pensava nei soliti luoghi non funzionava più. Oggi abbiamo bisogno di nuove idee e nuovi concetti, nuove immagini… e non funzionerà in questo caso l’outsourcing. Nulla e nessuno può oggi presentarsi alla porta di casa e dirci “sono la soluzione”, anzi, ciò sarebbe criterio certo per giudicarlo parte del problema. Per risolverlo, quindi, c’è un solo modo: cercare una strada, insieme ad altri perché la questione – questo è evidente - ci accomuna. Questo credo sia l’orizzonte “autentico” su cui traguardare nuovi fenomeni come il revival della filosofia, il propagarsi dell’interesse, quello serio, per il buddismo o il taoismo (che tra l’altro alla “vacanza del senso” dà una risposta secca e non occidentale: il senso non c’è, c’è solo il processo, l’acqua che scorre) e perfino i più o meno sinceri interessi delle aziende per i temi etici. Siamo all’alba di un nuovo paradigma di civiltà come sostiene il filosofo Pierre Levy quando parla di “intellligenza collettiva”? Penso proprio di sì… e d’accordo lui, ritengo che il pensiero sarà precisamente la posta in gioco.

domenica 13 dicembre 2009

Vita Nova

All’inizio della Vita Nova, Dante “rubrica” – usa questa parola – quanto poi scriverà in quell’opera sotto l’etichetta, o dizione, “incipit vita nova”. Con questo intendo dire che si tratta, e si tratta sempre, di un inizio, di un cominciamento, di una creazione e di una ricreazione. E anche di un ricordare, di un riprendere in mano, di un ridescrivere quanto già occorso. Infine, così come accade nella Vita Nova, si tratta anche sempre di un incontro – con Beatrice, nel caso di Dante. Con questo intendo sottoscrivere quanto sostiene Slavoj Žižek in Leggere Lacan, ovvero che per il pensiero ebraico-cristiano la verità viene fondata, nasce, insieme al mondo e al soggetto, dall’incontro traumatico con qualcosa che viene da fuori, dall’esterno (il desiderio dell’Altro, secondo lui). E’ un poco la stessa cosa che ci mostra Marquez in Cent’anni di solitudine, coi suoi zingari o gitani che siano che vanno in giro a diffondere invenzioni. Insomma, ciò che tu sei, pensi, desideri trova nell’altro (nell’Altro) la sua origine, la sua spiegazione e forse la sua motivazione, così come il suo scopo. Interessante a questo proposito è la distinzione fatta, nello stesso passo, sempre da Žižek , che riprende Kierkegaard, dicendo che la scelta cui siamo chiamati ha il suo paradigma nella polarità Socrate/Cristo, poiché per il paganesimo (e i Greci, pertanto), la verità giace e si trova e ritrova, invece, in una risalita verso un’origine coerente con noi, che sta in noi (è la rammemorazione Platonica, per esempio), e quindi senza il rapporto traumatico ed eterologico con l'altro. Io, per la verità, non sono sicuro che si debba scegliere, in questi termini per lo meno, tra Socrate e Cristo. Credo piuttosto che, da una parte, il pensiero ebraico/cristiano, con la sua idea dell’incontro con l’altro, sia un’eredità ineludibile, e che però, dall’altra, la filosofia, ovvero Socrate e con lui il paganesimo e gran parte della nostra tradizione di pensiero, ci aiutino ad evitare di consegnarci inermi nelle mani dell’Altro, sia esso un Dio, un Ideale o una nostra Immagine Amatissima. Come dire: che siamo desideranti è vero, ma che non sia un destino.

venerdì 11 dicembre 2009

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 2

Come si diceva in precedenti post (che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 2 è:

Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.

Comunità significa, a mio parere e un po' a un dipresso, che siamo tutti uniti da uno scopo comune, e che quindi siamo pronti a mettere in gioco tutti noi stessi e tutta la nostra passione. Cittadinanza significa, sempre a mio parere, sentirsi a un tempo appartenenti, responsabili e in qualche misura rappresentanti della comunità. Insomma, per essere icastici, si tratta di avere con la propria organizzazione lo stesso tipo di rapporto che si ha con il gruppo di amici con cui andiamo in bicicletta, o a fare free climbing o a organizzare mercatini temporanei di vestitini usati. Come è possibile realizzare tutto questo in un’organizzazione? La cosa non è così difficile come sembra. Il primo passo da fare consiste nell’accettare l’idea, ovvero, nel fare proprio l’assioma per cui se non c’è passione o impegno…. non va bene. Mi spiego con un esempio. C’è un’azienda americana, Gore & Associates, dove le persone, tutti, lavorano solo su quello che vogliono, per il tempo che vogliono e nel modo che vogliono. Non ci sono capi formali, non ci sono ordini, non ci sono obblighi, e ciascuno lavora solo su ciò che si è impegnato volontariamente di fare. Pazzi? Bè, sono quelli che hanno inventato il Gore-tex…. E allora perchè lavorano? Perchè ci danno dentro? Semplice: per realizzare degli obiettivi in cui credono. Ovviamente anche tutto il resto della struttura e dei processi organizzativi sono coerenti con questa visione: per esempio le retribuzioni sono in gran parte variabili in funzione dei risultati ottenuti dai team. Ma non è normale? Perchè non dovremmo essere premiati o danneggiati in funzione di quanto siamo o non siamo stati capaci di arrivare a target? Non è così nella vita?

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

mercoledì 2 dicembre 2009

mercoledì 18 novembre 2009

Il pensiero come un fiore

"Si, vi sono pensieri vivi e pensieri morti. Il pensiero che si muove sulla superficie illuminata, che può essere sempre verificato e riscontrato lungo i fili della causalità, non è necessariamente il pensiero vivo. Un pensiero che s’incontra in questo modo rimane indifferente come un uomo qualsiasi in una colonna di soldati in marcia. Anche se un pensiero è entrato nella nostra mente molto tempo prima, prende vita solo nel momento in cui qualcosa, che non è più pensiero, che non è più logico, si combina con esso, così che noi sentiamo la sua verità, al di là di ogni giustificazione, come un’ancora che lacera la carne viva e calda… Ogni grande scoperta si compie solo per metà nel cerchio illuminato della mente cosciente, per l’altra metà nell’oscuro recesso del nostro essere più interiore, ed è innanzitutto uno stato d’animo alla cui estremità sboccia il pensiero come un fiore."

Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless

domenica 15 novembre 2009

Questioni di cuore

Il film ci parla di un’amicizia virile. La cosa nasce in ospedale, dove i due si conoscono in lettino nel reparto infartuati. Uno (Albanese) fa lo sceneggiatore e affabula senza sosta, non tace mai, una ne fa e cento ne pensa. L’altro è un onesto carrozziere specializzato in macchine d’epoca, instancabile accumulatore di denaro e appartamenti, sposato con una bella donna e relativa prole d’ordinanza. Il fatto è che, una volta risolta la crisi cardiaca e dimessi ambedue, lo sceneggiatore, in crisi esistenziale e lavorativa, si accosta a questa famigliola, si affratella al carrozziere e addirittura, come fosse uno svago sabbatico, si mette a lavorare in carrozzeria. Ma il nostro carrozziere, saputo che il cuore non ce la farà, inizia a favorire non solo l’amicizia, ormai salda, ma anche i rapporti più intimi tra la propria moglie e lo sceneggiatore.
Nulla viene mai detto con chiarezza e in questo sta parte dell’eleganza e della bellezza del film. Ma è evidente che il nostro tragico carrozziere sta cercando di effettuare un passaggio di consegne: proprio per l’amicizia sul filo della vita e della morte che si è creata tra loro due, egli si figura di affidare la propria famiglia, moglie compresa, all’amico. Il quale, scoperto il gioco, dice no, o meglio, se ne va. Salvo poi farsi carico, almeno in parte, degli impegni tacitamente trasferitigli dall’amico carrozziere quando questi, infine, va incontro alla propria annunciatissima morte.
Il film è umano, ambiguo, scabro, sobrio e straziante. Ed eccelle proprio nel descrivere il difficile passaggio delle “consegne”. Il carrozziere, almeno in parte, le impone all’amico, ma forse di questo neppure è del tutto consapevole. Gli manca di rispetto? Forse, ma la questione è di altezza suprema, tale da svellere dal terreno delle consolidate regole sociali i paletti delle ragioni e delle facili decenze. Insomma, di fronte alla morte, quanto sareste disposti a mancare di rispetto a un amico per salvare e fare vivere ancora una parte del vostro mondo (amico compreso)? Fino a che punto sareste disposti a dissimulare e mentire ai vostri cari per perseguire quello che vi sembra il bene maggiore? E quanto sapreste, o saprebbero gli altri nel guardarvi da fuori, discernere in questa vostra condotta tra egoismo e altruismo? Oppure, in altri termini, per usare un ossimoro, quanto può essere egoista l’amore?
Le domande risuonano, lavorano, turbano, tornano in mente… e forse, come si addice davanti ai veri misteri, invece che rispondere è meglio tacere. Oppure, piuttosto, come hanno fatto gli autori di Questioni di cuore (la regia è di Archibugi), narrare. Perché se è vero che in questi casi una descrizione, per esempio delle gerarchie dei beni voluti e implicati dalle scelte dei personaggi (la vicenda può esssere letta dal punto di vista di ognuno), si scontra con paradossi inestricabili, ovvero (secondo il vocabolario filosofico) indecidibili, raccontare una storia, invece, ci permette di mettere le carte in tavola, mostrare le mosse dei giocatori e definire la posta in gioco senza giungere a una conclusione che si rifaccia a una legge. Una storia articola e gioca con temi universali, ma non li esaurisce. E forse, parlando di rispetto, una storia ci ricorda col suo solo narrare, senza legiferare, che il rispetto consiste proprio nel tenere presente che qualcosa sempre ci sfugge, trascende, va al di là di qualsiasi riduzione a una logica o a un calcolo definitivi. Non proprio un mistero, ma quasi: uno spazio che resta libero, in agio, per sempre nuove interpretazioni.


Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 1

Come dicevamo in un precedente post (che si trova sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", che si trova in fondo a questo post) la prima delle 25 sfide per il management di domani è:

Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato. Il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.

Che sembra molto ambiziosa. O esagerata. Oppure impossibile… vero? Vediamo… sapete qual è la mission di Google? “Organizzare la conoscenza universale in modo che sia accessibile e utile”. Mi sembra molto bella, nobile e socialmente rilevante. Quindi è possibile rispondere positivamente a questa prima sfida. Va inoltre notato che, a differenza di molte altre mission, quella di Google è distintiva e specifica, si capisce perfettamente cosa ammette e cosa no. E per di più, grazie al Dio degli stakeholders, non tira in ballo il valore per gli azionisti (niente contro sia chiaro, ma c’è in quasi tutte le mission… è esornativo). Insomma quei ragazzi di Google sanno cosa stanno facendo.. e questo, guarda caso, li rende orgogliosi, entusiasti e motivati. Ma bravo, direte voi, stiamo parlando di Google! …e noi che invece facciamo pompe sottomarine? Ahinoi, la grettezza! In verità è sempre possibile contestualizzare il proprio business in un ambito di più ampia e sociale rilevanza… e non è questione di retorica, al contrario, è questione di realismo. Si tratta di pensare a chi è interessato a quello che facciamo, alla nostra ragion d’essere, ai legami sociali che il nostro business comporta. E state certi che al pensarci così, ne viene fuori un valore sociale e perfino nobile (bè, ovviamente dipende dai criteri con cui si definisce la nobiltà). Insomma è un esercizio di pensiero sociale ed etico, una defnizione della propria identità a partire dal motivo per cui gli altri (clienti, fornitori, vicini ecc.) ci danno valore. Provate dunque a chiedervi: cosa dò al mondo? Perché gli altri dovrebbero essere interessati alla mia esistenza? Chi si avvantaggia di me? E perché? E come e in che misura tutto questo è condivisibile e valorizzabile da un gruppo ampio di persone? E se questo gruppo di persone fossero tutti, vale a dire il genere umano, la cosa, il valore sociale del mio business, reggerebbe ancora?
E di una cosa potete stare sicuri: che se non trovate risposte soddisfacenti a queste domande il vostro business non vale gran chè. E varrà sempre meno.

Per maggiori informazioni vedi
www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

sabato 7 novembre 2009

Le grandi sfide per il management del XXI secolo - elenco

Nel 2009 un gruppo di esperti di organizzazione si riunisce per chiarire quali siano i rischi e le opportunità più importanti per il management di domani. La conferenza, organizzata da The Management Lab (www.managementlab.com) con il supporto di McKinsey & Co. è durata due giorni e ha visto impegnate 35 autorità del settore, di orientamento liberal e progressista, va detto, tra cui, tanto per citarne alcuni Chris Argyris (Harvard University), Lowell Bryan (McKinsey Company), Yves Doz (Insead), Linda Hill (Harvard Business School), Tom Malone (MIT Sloan School of Management), Peter Senge (Society for Organizational Learning e MIT), nonché esponenti di Google, Wired, W.L. Gore Associates, Whole Foods, UBS e altre quattro o cinque importanti università americane. Costoro, che rappresentano sicuramente una parte del pensiero di punta di oggi sulle questioni organizzative, hanno redatto un documento che comprende e descrive le 25 sfide chiave per il management di domani, una sorta di manifesto di cui intendiamo parlare un po’. Per ora mi limito a elencarle:

1. Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato. Il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.

2. Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.

3. Ricostruire le fondamenta filosofiche del management. Per creare organizzazioni che siano ben più che semplicemente efficienti, avremo bisogno di attingere agli insegnamenti di campi come la biologia, le scienze politiche e la teologia.

4. Debellare le patologie della gerarchia formale. Le gerarchie naturali, dove il potere procede dal basso verso l’alto e i leader emergono anziché essere nominati, comportano numerosi vantaggi.

5. Combattere la paura e aumentare la fiducia. La diffidenza e la paura sono tossiche per l’innovazione e il coinvolgimento, e devono essere estromesse dai sistemi manageriali di domani.

6. Reinventare gli strumenti di controllo. Per superare il trade-off tra disciplina e libertà, i sistemi di controllo devono incoraggiare il controllo dall’interno anziché i vincoli imposti dall’esterno.

7. Ridefinire il lavoro di leadership. La nozione de “il” leader come teorico decisore è indifendibile. I leader devono essere rimodellati come architetti di sistemi sociali che favoriscono l’innovazione e la collaborazione.

8. Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.

9. Reinventare il processo della formulazione della strategia come un processo in divenire. In un mondo turbolento la formulazione delle strategie deve riflettere i principi biologici della varietà, della selezione e della conservazione.

10. Destrutturare e disaggregare l’organizzazione. Per diventare più capaci di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole e malleabili.

11. Ridurre sensibilmente l’influsso del passato. I sistemi di management esistenti spesso rinforzano, senza volerlo, lo status quo. In futuro dovranno facilitare l’innovazione e il cambiamento.

12. Condividere il lavoro di stabilire la direzione. Per coinvolgere i dipendenti, la responsabilità della definizione degli obiettivi deve essere distribuita attraverso un processo nel quale il grado di influenza sia proporzionale al discernimento, non al potere.

13. Sviluppare misure di performance olistiche. Le misure di performance esistenti devono essere ripensate, perché non prestano sufficiente attenzione alle competenze umane fondamentali che stanno alla base del successo in un’economia creativa.

14. Allungare gli orizzonti temporali e la visione prospettica dei dirigenti. Scoprire alternative ai sistemi di retribuzione e ricompensa che incoraggiano i manager a sacrificare gli obiettivi a lungo termine per i guadagni di breve periodo.

15. Creare una democrazia dell’informazione. Le aziende hanno bisogno di sistemi di informazione olografici, che diano a tutti i dipendenti gli strumenti di cui hanno bisogno per agire nell’interesse dell’intera impresa.

16. Dare potere ai ribelli e disarmare i reazionari. I sistemi di gestione devono dare maggiore potere ai dipendenti che hanno investito il proprio capitale emotivo nel futuro anziché nel passato.

17. Espandere la portata dell’autonomia del dipendente. I sistemi di gestione devono essere progettati in maniera da favorire le iniziative dal basso e la sperimentazione locale.

18. Creare mercati interni per le idee, i talenti e le risorse. I mercati riescono ad allocare le risorse meglio di quanto non facciano le gerarchie, e i processi di allocazione delle risorse aziendali devono riflettere questo dato di fatto.

19. Depoliticizzare i processi decisionali. I processi decisionali devono essere liberi da distorsioni legate alla posizione e devono sfruttare la saggezza collettiva dell’intera organizzazione, e anche oltre.

20. Ottimizzare meglio i trade-off. I sistemi di gestione tendono a imporre degli aut-aut. Ciò che serve sono sistemi ibridi che ottimizzino più gradualmente i trade-off.

21. Dare libero sfogo all’immaginazione umana. Molto si sa dei fatti che stimolano la creatività umana. Queste conoscenze devono essere applicate meglio alla progettazione dei sistemi manageriali.

22. Favorire le comunità di interessi. Per massimizzare il coinvolgimento dei dipendenti, i sistemi manageriali devono facilitare la formazione di comunità di interessi spontanee.

23. Riattrezzare il management per un mondo aperto. I network che creano valore spesso trascendono i confini dell’impresa e possono rendere inefficaci i tradizionali strumenti manageriali basati sul potere. Servono nuovi strumenti di gestione per costruire e modellare ecosistemi complessi.

24. Umanizzare il linguaggio e la prassi del business. I sistemi gestionali di domani dovranno attribuire altrettanta importanza agli ideali eterni dell’umanità, come la bellezza, la giustizia e la comunità, quanta ne ripongono nei tradizionali obiettivi dell’efficienza, del vantaggio e del profitto.

25. Rieducare la mentalità manageriale. Le tradizionali capacità analitiche e deduttive dei manager devono essere intergrate da capacità concettuali e di pensiero sistemico.

E ora, ricordiamoci della prima:

Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato: il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.

Credo che sia anche la più importante. E concludo con una domanda: ma come fare? Pensarci non è esercizio da poco… proviamoci. Per chi vorrà seguirmi, in un prossimo post, sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani" (cercatela nei tag a destra), ne discuterò e poi, via via, con successivi post, tratterrò tutte le altre sfide, per trarne una sorta di manuale dell'organizzazione del futuro.
(per maggiori informazioni vedi
www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore).

lunedì 26 ottobre 2009

Consulenza Filosofica

Che cos’è la La Consulenza Filosofica? Nata nel 1980 per iniziativa di Gerd Achenbach è un dialogo di chiarificazione, analisi e orientamento che utilizza gli strumenti della ragione e della logica, del pensiero critico e della riflessione sulla propria esperienza per affrontare i problemi della vita. Può essere utile per affrontare un dilemma, per effettuare una scelta, per gestire un disagio esistenziale, per chiarire la propria visione del mondo, per indagare presupposti e conseguenze di azioni che si vogliono compiere. Nel corso del dialogo il filosofo consulente non ha il compito di dare le risposte, ma piuttosto di mettere il consultante in condizione di trovare da sé le soluzioni migliori per lui. Il filosofo consulente, infatti, non ha idee preconcette, è aperto e al servizio del consultante per esplorare insieme a lui le questioni che gli stanno a cuore e dunque sviluppa analisi, formula ipotesi, confronta diverse possibilità, propone sintesi, apre scenari, riduce la complessità. In pratica fa quello che hanno sempre fatto i filosofi, soprattutto nell’antichità: aiuta le persone a trovare la strada per vivere meglio. Infine va detto che la Consulenza Filosofica si rivolge a chiunque e per usufruire di una consulenza filosofica non è affatto necessario conoscere la filosofia: ogni persona può riflettere su di sé usando gli strumenti del pensiero. Anzi, di solito lo facciamo tutti… solo che un filosofo consulente può aiutare a farlo meglio.

mercoledì 7 ottobre 2009

Non si parlano

Sto lavorando a un intervento sui conflitti in seno a un’organizzazione e mi sono imbattuto nella seguente affermazione di Peter F. Drucker: “Tutte le volte che io, al pari di qualunque altro consulente, inizio a lavorare con un'organizza­zione, la prima cosa di cui sento parlare sono i conflitti di perso­nalità. In genere questi conflitti derivano dal fatto che le persone non sanno che cosa fanno gli altri e come svolgono il loro lavoro, o su quale contributo si concentrano gli altri e quali risultati si aspettano. E la ragione per cui non lo sanno è che non l'hanno mai chiesto e quindi non gli è mai stato detto.” Capito l’arcano? Uno dei più celebri consulenti e pensatori di management del mondo ci dice che il problema sta nel fatto che la gente non si parla. Perchè? La risposta di solito è: “abbiamo altro da fare”, ed è sottinteso che questo “altro” (obiettivi, performance ecc.) è più importante. Ciò mi porta a pensare che gran parte dei problemi delle organizzazioni sarebbero risolvibili da una buona madre di famiglia. Quello che manca è un po’ di buon senso, una visione complessiva delle cose e la voglia di trarne le conseguenze. Ma di questi tre elementi quale è il più critico, o il più difficile a effettuare? Dalla risposta a questa domanda dipende molto di come si pensa il lavoro con le organizzazioni....

martedì 8 settembre 2009

Sempre con altri

Persone e organizzazioni: perchè insieme? Perchè sono la stessa cosa. O meglio le une non vanno senza le altre. Sorpreso, caro lettore? Come, dirai, una persona è una persona, che c'entra con un azienda o un'associazione? E se invece sei un "organizzativo" (un uomo o una donna d'azienda per esempio) potresti pensare che in primo luogo c'è l'ente azienda, il suo scopo (di solito fare profitti, non è vero?) e che le persone sono solo dei mezzi, come i capitali o le macchine: delle "risorse umane"... appunto. Non è proprio così. Gli esseri umani hanno sempre vissuto in gruppi organizzati, anche quando, centomila anni fa, andavano in giro a cercare frutti polposi in bande di quindici individui. Non esiste Robinson Crusoe, come diceva Marx, criticando l'individualismo liberista. Che è la stessa ideologia, peraltro, che sta alla base di molto pensiero organizzativo, quello basato sull'idea che i lavoratori (o le persone?) non hanno voglia di lavorare. E difatti l'altra notizia è questa: può anche darsi che vi siano, o vi siano state, organizzazioni che "annullano" la componente personale, ovvero la libertà, degli esseri umani (non dico individui perchè mi pare una nozione fumosa). Certi eserciti, per esempio. Ma una cosa è certa: oggi questo tipo di organizzazione non avrebbe molto succcesso. Per un fatto semplicissimo: chi ci vorrebbe stare?