Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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domenica 31 luglio 2011

Natura Inc

"La natura fornisce all'economia britannica servizi gratuiti per un valore di decine di miliardi all'anno, da luoghi e paesaggi ricreativi alla fertilizzazione dei terreni, alla purificazione delle acque. E' quanto emerge dalla prima valutazione finanziaria sistematica dell'ambiente. Condotto da cinquecento esperti nel campo dell'ecologia, dell'economia e delle scienze sociali, il National Ecosystem Assessment offre 'un nuovo modo di valutare la ricchezza nazionale', ha detto Lord Selborne, presidente dell'associazione governativa Living with Environmental Change."

Clive Cookson, "Nature worth billions, says environment audit", Financial Times 02 June 2011

Speriamo che la natura non chieda il conto in breve. Ma che tipo di contratto abbiamo con lei? Encomiabile comunque lo stile chiaramente humeano che traspare da questi inglesi, perchè portando all'eccesso la nostra logica forse possiamo arrivare a ribaltarla: che debito abbiamo accumulato? E come lo ripianiamo? E qual'è il tribunale competente? In questi casi ci vorrebbe Dio, ma per rimanere in stile british, come dice P.J. Farmer in Venere sulla conchiglia, Dio, per l'appunto, "qualche secolo fa è andato a bere una birra e da allora non si è più visto". Per cui col nostro socio di fatto Natura Inc. dovremo trattare da soli.

giovedì 21 luglio 2011

L'importanza della fiducia

“I team che vivono in una cultura di responsabilità, collaborazione e iniziativa sono più portati a ritenere di potere affrontare qualsiasi tempesta. La fiducia in se stessi, insieme alla fiducia reciproca e nell’organizzazione, motiva i vincitori a determinare quella spinta in più in grado di fornire il margine per la vittoria. La lezione per i leader è chiara: costruite la pietra angolare della fiducia – responsabilità, collaborazione e intraprendenza – quando le cose vanno bene, e i risultati arriveranno facilmente”.

Rosabeth Moss Kanter, Harvard Business Review Italia, 05 2011 p. 6

Tutti insieme

"...gli uomini cioè non possono desiderare niente di più efficace alla loro conservazione di questo: che tutti convengano in tutte le cose in modo che le menti e i corpi di tutti vengano a comporre una sola mente e un solo corpo, e che tutti insieme, per quanto possono, si sforzino di conservare il loro essere, e che tutti insieme desiderino per sé l'utile comune".

Baruch Spinoza, L'etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, prop. 18 Scolio

Mi piace pensare che "conservazione" è anagramma di "conversazione"...

martedì 19 luglio 2011

Nachtraglich

"Dal punto di vista della storia mondiale, la guerra del Peloponneso ebbe luogo affinché Tucidide potesse scrivere un libro su di essa". E' una frase molto hegeliana, quasi caricaturale, che si permette Zizek, a scopo didattico, nel suo bellissimo e già più volte da me citato (vedi tag Zizek) Vivere alla fine dei tempi, libro a mio avviso intrigante quanto irrisolto, un poco come L'uomo senza qualità, che adoro da sempre, più o meno da quando ho vent'anni. Ma tralasciando queste idiosincrasie autobiografiche, mi chiedo e ti chiedo: cosa estrarre dalla citazione di cui sopra, che non ho messo a caso (immaginerai, spero, mio ipocrita lettore, come direbbe Baudelaire)? Che il senso si costruisce posteriormente, ovvero, in inglese, mediante feedback retroattivo, oppure, in tedesco, in modo nachtraglich (termine chiave, secondo Lacan, in Freud). Il che significa, detta in soldoni, che non saprai mai se sarà stato vero amore finché non ci avrai provato. E solo dopo sarà stato vero. In altri termini, il senso di questa frase, di questa che sto scrivendo all'uopo e tu in questo momento stai leggendo, lo potrai sapere solo ora. Che questo movimento si manifesti precipuamente nel linguaggio, e in particolare nel suo coté performativo (ovvero nel fatto che ogni proferimento è un'azione, anche e soprattutto), è una delle questioni che mi piace mantenere vive e indagare, perché mai finiscono di dare frutti.

domenica 17 luglio 2011

Il soggetto postraumatico: il vuoto interiore

“Ultimamente, Halliday si era reso conto di essere persino in grado di convivere con la propria non-esistenza, visto che non aveva senso piangere troppo a lungo la scomparsa di qualcosa – vale a dire di un se stesso – che nemmeno riusciva più a ricordare. Tutto ciò costituiva un motivo di ansia, ma di un’ansia ormai vecchia di giorni. Quello di adesso invece era un sintomo fisico. Riguardava l’esatta metà della testa, cranio e cervello, ed era una sensazione semplicemente non-definibile. Anzi, la si sarebbe potuta descrivere come l’improvvisa scomparsa di una sensazione talmente consueta e continua da non essere più percepita, come un suono di cui ci si accorga solo nell’attimo in cui si interrompe.” Il motivo per cui ho riportato questo passo di Amsterdam di Ian McEwan è che credo ci possa introdurre al mondo del soggetto postraumatico, di cui vorrei occuparmi per un po’, annunciando fin da subito che intendo per soggetto postraumatico da una parte quello che risulta da stress profondi e massivi, come per esempio un’esplosione, ma anche vi vedo, dall’altra, con il conforto di autori quali Zizek e Agamben, il paradigma della nostra condizione ipermoderna. In particolare, nel brano citato sopra, trovo interessante che il considerarsi inesistente sia cosa consueta, esattamente come accadde a noi nello scorso secolo con i paradossi del cogito cartesiano ovvero del soggetto moderno, che si scoprì per l'appunto inesistente, o per lo meno inconsistente, diviso e straniero a se stesso. Ma la novità, la cosa in questione, sta nella diversa percezione che s’annuncia, quasi subdolamente o meglio, in modo quasi strisciante, inapparente, asemantico: è sparito qualcosa di quasi-fisico e a questo qualcosa di quasi-fisico sono legati da una parte l’idea di una sensazione “consueta e continua”, come dire, una sorta di base continua (forse il cogito stesso, azzardo, anch’esso peraltro, come detto poco sopra, consueto), dall’altra la scomparsa di un sentire, o meglio forse del sentire stesso, ovvero del sentirsi sentire. Che il romanzo di McEwan si apra con una fulminante morte per Alzheimer non mi pare a questo punto un caso. Come non credo sia un caso che poco dopo, il nostro vacuo Halliday si senta meglio perché “adesso che era di nuovo in mezzo alla gente, immerso nel proprio lavoro, il vuoto interiore non lo affliggeva più”. Cosa abbiamo perduto? Perché la vita ci sembra senza senso? Cosa possiamo fare al riguardo? Credo che condividiamo tutti questi interrogativi. Come pure l'assenza di risposte. E forse vale la pena di cercarle.

giovedì 14 luglio 2011

Amore e Saggezza

"L'amore dice 'Io sono tutto'. La saggezza dice 'Io non sono nulla'. Fra questi due scorre la mia vita"

Sri Nisargadatta

domenica 3 luglio 2011

La bellezza é metafora

La bellezza è davvero, come diceva Sthendal, promessa di felicità? Io credo di sì, e ritengo che al riguardo vi siano oggi punti d’appoggio nelle neuroscienze. Infatti, non solo sono stati elaborati alcuni “principi” di neuroestetica (Ramachandran), ma più in generale penso che nella bellezza risuoni la metafora (o l’analogia) della metafora (o dell’analogia). Mi spiego. Se come pare, simulazione, replica e così via sono alla base del nostro sistema nervoso e di funzioni basilari quali la percezione, memoria, immaginazione e previsione (su questi argomenti posso rimandare a un libro di cui sono coautore: IES – Intelligenza empatico sociale, Franco Angeli; il sottitolo è: dai neuroni specchio allo sviluppo delle organizzazioni) allora metafora e analogia sono i “mattoni”, anzi i “funtori” chiave dei processi mentali (cosa che tra l’altro per certi versi sostiene o accenna di sostenere lo stesso Ramachandran). E se così è, perché non vedere nell’esperienza della bellezza l’esperienza ovvero l’analogia della metafora stessa? Da questo punto di vista una cosa bella sarebbe una sorta di esempio preclaro di buona metaforizzazione, una specie, per l’appunto, di metafora ben riuscita per antonomasia, il ricordo di una simulazione che risimulando la simulazione assurge ad archetipo stesso del simulare. Ovvero del meccanismo “x somiglia e sta per y”… cosa che tra l’altro sarebbe perfettamente coerente con la teoria estetica (poco nota in Italia) di Danto, il quale sostiene che un’opera d’arte è tale perché dichiarata tale, laddove nel meccanismo del dichiarare ci vedo il meccanismo dell’exemplum o se vogliamo della segnatura (Agamben) per cui estraendo un membro da una classe (quello più rappresentativo, quello che assomiglia di più – con un plus ovvero un “non so che” di somiglianza - a tutti i membri della classe) lo si rende segno e “nome” della classe stessa (è il meccanismo dell’antonomasia, ovvero quello per cui i fazzolettini di carta si chiamavano un tempo kleenex – che era una marca… archetipica). Insomma, anche qui ci vedo, in modo per quanto, ammetto, ancora embrionale e un po’ confuso, una sorta di convergenza e sovrapposizione tra rappresentare, significare e analogizzare per mezzo dell’esemplificazione analogizzante. Se ciò è vero, ne consegue a mio parere, che oggi l’arte contemporanea da una parte esibisce questo stesso meccanismo (che potremmo davvero chiamare come il suo fondamento neurologico “meccanismo specchio”) e dall’altro lo tradisce, ponendosi a un tempo a livello di eresia dell’arte o antiarte e, insieme, di discorso sull’arte. Che in questa deriva si perda l’esperienza dell’arte “bella” è cosa su cui meditare e credo sia analoga (ancora) a quella del capitalismo di oggidì, quello che ci costringe a scomposte e ossessive performance di sostituzione compulsiva dell’oggetto – e ci consegna così a un pulsione senza desiderio dove nel vortice del “godi più che puoi” ci si può tranquillamente infilare anche ciò che è brutto, disgustoso ed esecrabile. Qui forse si cela il mistero dell’emergere del kakon quale idolo nascosto della contemporaneità. Che è il negativo, in calco, forse, della felicità promessa dalla (perduta, come peraltro sempre forse essa è) bellezza. Per esprimerci una volta tanto davvero cripticamente: se il recupero del premoderno è garanzia a salvezza del senso messianico racchiuso nel movimento incessante della modernità, il futuro dell’arte non sta nella infinita metonimia del gioco del furetto (Lacan) della performance sempre nuova e diversa. E nemmeno nella metarte fine a sé stessa.