Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

Cerca nel blog e nei links

sabato 22 dicembre 2012

Non possediamo la verità

"La novità nella nostra attuale posizione filosofica è una convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: che cioè non possediamo la verità. Tutti gli uomini del passato "avevano la verità": persino gli scettici."

Friedrich Nietzsche 
Frammenti postumi, primavera 1880  

giovedì 20 dicembre 2012

Bellezza


"La bellezza è un momento essenziale dello spirito. Senza la bellezza, senza l'esperienza della bellezza. Un uomo non sarebbe completo."

Adriano Olivetti 
Intervista alla RAI 1959

La vita felice

"Se la vostra vita di tutti i giorni vi sembra povera, non accusatela. Accusate voi stesso, che non siete abbastanza poeta da saperne estrarre le ricchezze"

Rainer Maria Rilke
lettera a F.X. Kapus 17 02 1903

Doing What Works: Forward in Solution-Focused Change: Best posts of 2012

Doing What Works: Forward in Solution-Focused Change: Best posts of 2012: This year, I have written slightly fewer posts than usual (partly due to the fact that I started this blog which required some time and a...

sabato 15 dicembre 2012

Se è falso allora è vero

Socrate: "Platone mentirà nella frase che segue".
Platone: "Socrate ha detto il vero nella frase precedente". 

Pensateci sopra e fatevi venire il mal di testa. Lo ha inventato il tipo famoso per l'asino che muore perché non sa decidersi se mangiare la balla di fieno di destra o quella di sinistra: Giovanni Buridano, vissuto nel XIV° secolo, che con quella storiella dell'asino voleva dimostrare la differenza tra animali e uomini, ma che con questa nuova versione dell'antico paradosso del mentitore ("Io mento") in realtà ci rende tutti alla stregua di asini, obbligati a rimbalzare per sempre da una frase all'altra, perché se una di esse è vera, allora è falsa, e se è falsa è vera. L'interesse per la storia della logica sta nel fatto che estrae il paradosso del mentitore dall'ambito dell'autorefenzialismo (non è più lo stesso soggetto parlante a riferirsi a se stesso). L'interesse per noi qui è che cose del genere pare stiano alla base di qualunque sistema simbolico complesso, comprese ovviamente le organizzazioni sociali.

venerdì 9 novembre 2012

La mafia vale il 10% del PIL

Su linkedin sono intervenuto a un dibattito su cosa fare per il nostro paese, o forse con il nostro paese. Alcuni proponevano questo, altri quello. E mi è venuto di dire quest'altro: 

E' molto bello orientarsi alle soluzioni e al design driven, non sto ironizzando. Tuttavia è anche fondamentale chiarire i vincoli. In Italia il giro d'affari della malavita organizzata vale, secondo ampio consensus, tra il 10 e il 12% del PIL, con margini del 100%. Credo che questo sia un vincolo. Come scardinarlo? Mi spiego meglio, perchè non vorrei suscitare storming valoriali e futili: è una quota molto maggiore di altri paesi, i cinesi per esempio sono molto più bravi a gestire il problema, che pesa molto meno sul loro PIL, e genera, da noi, una liquidità proporzionalmente impressionante - e di questi tempi con capacità di influenzamento sempre maggiore: nessuno ha soldi e quindi articolo quinto (chi ha in mano i soldi ha vinto!). Con questa forza (il 5% del PIL in cash) si può fare quasi ogni cosa, tra cui gestire il parlamento e l'esecutivo. Questo è il motivo per cui chiunque acceda a ruoli di potere si omologa a un sistema di connivenze che ha come risultato quello che sappiamo - dalle banche in Romania agli accordi con Putin, e non è una questione di parrocchie. Se vale un criterio olografico, ho fatto l'amministratore locale e vi assicuro che non si muove foglia che a dar giusto riscontro non voglia e che ad andare con lo zoppo si impara a zoppicare... e se non impari ricevi (da noi e oggi elegantemente) proposte che non si possono rifiutare. La casta non si è formata per caso. Se qualcuno sa come fare per riconfigurare questo shape.... lo dica. Io non lo so.

Per chi lo desidera e accede a linkedin, può seguire  il dibattito qui

lunedì 15 ottobre 2012

Sono le idee che fanno il mondo


“Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando sono giuste che quando sono sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità sono loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…”
Sono parole di John Maynard Keynes, citate da Fabrizio Galimberti sul Sole24ore di domenica 14 Ottobre 2012 (a pag. 14 in “L’austerità e la rivincita di Keynes”), da lui riportate a sostegno di una critica all’austerità oggi vigente in quanto avrebbe trascurato il rischio di ponderazione previsionale dei moltiplicatori fiscali.  A me invece hanno colpito per un altro motivo. O forse due. In primo luogo perché sono vere, e questo parere autorevole – per di più proveniente dalla parte degli economisti “in azione” - conforta oltre ogni immaginazione il mio cuore di philosophical practionner (non trovo traduzione adeguata), ma soprattutto conforta la mia sicurezza di poter sostenere altrettanto quando, per esempio, mi ritrovo a constatare che gran parte del mondo è ancora intriso di liberismo individualista, di radice in fondo benthamiana, per cui moltissime persone sono convinte di potere e dovere spiegare tutto a partire dalle scelte e dalle esigenze dell’individuo, di solito come si sa “razionale”, quando invece mi pare oggi indispensabile vedere ogni fenomeno a partire dal dato di fatto primitivo della gruppalità – insomma basta con l’homo homini lupus: non ci sono lupi e siamo piuttosto simili ai macachi, ci spulciamo l’un l’altro e cerchiamo insieme banane, che poi magari ci sgraffigniamo a vicenda, va bene, ma siamo esseri sociali in primis, e semmai dovrebbero spiegarci come è possibile che ci consideriamo individui. Insomma, le parole di Keynes mi spronano a sostenere ancora e sempre la “battaglia per la verità”. E qui passiamo al secondo motivo per cui la citazione riportata da Galimberti mi ha colpito: ne consegue che dobbiamo avere cura delle idee. Ovvero che la missione di chi si azzarda a pensare  è alta, importante e rischiosa. Chi genera, sostiene o critica idee, e mi viene da aggiungere non solo di filosofia politica, ma anche morale e teoretica, come pure estetica, dato che queste cose sono tutte tra loro collegate, ha la possibilità di influire sulla storia… orsù pensatori, ancora uno sforzo e meno male che certe cose ogni tanto le dicono perfino gli economisti. 

domenica 16 settembre 2012

Sono eccezionale... vero?

"Era il conflitto più profondo, più tragico e universale di cui il paradosso della celebrità faceva parte. Il conflitto fra la centralità soggettiva delle nostre vite da una parte e, dall'altra, la nostra consapevolezza della sua oggettiva mancanza di significato. La collocazione di un genere di paura totalmente nuovo, della morte causata dalla demografia - il fatto che il terrore di rientrare nella media rientrava a sua volta completamente nella media".

Sono parole di D.F. Wallace in Oblio, nel racconto "Il canale del dolore" e quando le ho lette mi sono chiesto se anche per me è così. Ovvero se anche per me l'imperativo di distinguermi dalla massa è in fondo l'unica strada di salvezza in cui, sia pur passivamente, credo, oppure se ho altri sistemi, magari migliori, per scongiurare l'angoscia di morte e di non senso che logora e smangia ogni giorno di più i margini della mia vita. E mi sono risposto, ahimè, di no. Sono come tutti gli altri. Come te. Speriamo disperatamente di trovare un senso a questa vita in un'eccellenza riconosciuta dagli altri. Non in un'eccellenza tout court: è il riconoscimento che la rende tale, tant'è che uno può essere un perfetto idiota, ma se diventa famoso allora è salvo. Immortale. Fuori dal tritatutto dell'azzeramento del senso. Del resto lo diceva anche Musil, molto tempo fa, quando da qualche parte nell'Uomo senza Qualità parlava del fatto che nel nostro tempo di kitsch e mediocrità un cavallo da corsa può diventare un eroe. Ma la cosa che più è notevole nel sopracitato passaggio del profondissimo D.F Wallace - che forse si è impiccato proprio perchè non riusciva a risolvere la questione - è che proprio questo insano desiderio ci rende mediocri. Detto in altri termini - che a Wallace sarebbero piaciuti, perché logici (aveva studiato logica) - giacché vogliamo essere non mediocri, allora lo siamo. Ma esiste una via d'uscita a questo doppio legame?

Da un doppio legame (del genere io mento, la classe di tutte le classi che non comprendono se stesse e così via) si esce secondo Watzlawick molto semplicemente infischiandosene. Ed è già un'indicazione. Ma forse in questo caso ne possiamo dare un'altra: la fallacia delle premesse. Ovvero: siamo proprio sicuri che io mi devo distinguere dagli altri? Che io (che tu) in quanto separato e diverso, individuo signore e re del proprio spazio vitale, debba separarmi ancora di più, distinguermi ancora di più, essere ancora più diverso? Ma cosa c'è di male nell'essere... comuni? E poi guarda che strano: sono gli altri, la loro comunità, che decreta la mia eccellenza, che dunque altro non è che uno specchio delle loro aspettative, delle aspettative della massa...


sabato 14 luglio 2012

Aziende senza manager

"Bossless", le aziende senza manager funzionano meglio. Flessibilità e collaborazione le carte vincenti.

Alla fine degli anni Sessanta Bill Gore è un ricercatore nei laboratori di Dupont: lascia il colosso della chimica e fonda la sua azienda, W.L. Gore. Inventa con altri due colleghi un materiale ultraresistente, il gore-tex. E fin dall'inizio propone l'idea di un' "impresa lattice", aperta e flessibile. Per lo sviluppo dei prodotti offre estrema libertà a piccoli gruppi autonomi. Adesso i 9mila dipendenti lavorano in edifici che non superano le duecento persone per evitare di perdere efficienza nella gestione dei feedback. Fatturato: tre miliardi di dollari. È una delle società con una cultura "bossless", senza capi, che hanno dimostrato la loro competitività sul mercato. Alcune esistono da decenni, ma negli ultimi tempi hanno ricevuto attenzione all'interno di ricerche sulla "open innovation", un'innovazione aperta dove trasparenza e adattabilità giocano un ruolo chiave… Il seguito dell’articolo, che parla anche di Morning Star e di Saic, lo trovate su Il sole 24 Ore, qui.

lunedì 28 maggio 2012

"Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza

Due articoli apparsi su Harvard Business Review di questo mese, entrambi a firma Ron Ashkenas, focalizzano molto bene il tema sempre più dibattuto dell'innovazione.

Il primo articolo, dal titolo molto esplicito "I Manager non vogliono davvero innovare", analizza le motivazioni reali per cui questo accade: Focalizzazione sul breve, Paura di cannibalizzare il business corrente, Orientamento a processi di lento miglioramento dell'esistente (per esempio Six Sigma).

Tutto questo porta, con un efficace battuta dell'autore, a far dire ai manager: "Io voglio che tu innovi, ma solo dopo aver fatto il tuo lavoro". Dunque fare innovazione profonda non fa parte del lavoro delle persone.

Una palese contraddizione con gli intenti iniziali.

Il secondo articolo, "E' tempo di ripensare il miglioramento continuo", analizza proprio la terza causa della resistenza al miglioramento. Six Sigma, Kaizen, Lean e loro variazioni possono essere pericolose per le capacità di innovazione dell'organizzazione... Per continuare la lettura si vada al post Ettardi: "Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza

martedì 22 maggio 2012

Verso una leadership filosofica

"Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della “tenuta” dell’idea di leader – a volte messa radicalmente in questione - nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Lungi dal provare a riassumere anche soltanto una parte della letteratura, mi limiterò nelle pagine che seguono a una sorta di brevissima scorribanda attraverso alcuni contributi essenziali e relativamente recenti sull’argomento, focalizzandomi su quanto mi pare più interessante per un contributo allo sviluppo e all’esercizio della leadership da parte delle pratiche filosofiche, di cui parlerò in seguito".... se vuoi leggere il seguito di questo articolo uscito su Persone&Conoscenze di questo Aprile clicca qui.

Morte e Vita

Non ha mai pensato di uccidersi?
Non è per morire che penso alla mia morte. E' per vivere.

André Malraux

domenica 6 maggio 2012

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 10


Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 10 è:

Destrutturare e disaggregare l'organizzazione.  Per diventare più capaci di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole e malleabili.

In un articolo dell’anno scorso sulla Harvard Business Review, una delle riviste più autorevoli del mondo di management, Gary Hamel dichiarava:  “Primo, licenziare tutti i manager”, e continuava dicendo che “il management è la meno efficiente attività dell’attività meno efficiente della tua organizzazione”. Questo perché più barocca è la gerarchia dell’azienda e maggiore è il rischio che prenda decisioni disastrose, tant’è che “i manager più potenti sono quelli più distanti dalla prima linea della realtà”. Insomma, come spesso ripete il nostro autore, il management è una tecnologia vecchia, o meglio, secondo quanto dice in Il futuro del management ha solo di che reinventarsi secondo un modello web 2.0. Ma perché mai? Perché la gerarchia è lenta, rigida, ripetitiva e per intercettare le opportunità che appaiono e scompaiono a velocità sempre crescente nei mercati (ammesso che si chiameranno ancora così), le organizzazioni devono trovare il modo di modificarsi molto rapidamente e, senza essere appesantite da vincoli o preconcetti, abituarsi a riconfigurare rapidamente al proprio interno e nel dialogo con l’ambiente in cui vivono le procedure, i processi, le capacità, le infrastrutture e le risorse. Ma quante organizzazioni sono capaci di farlo? In realtà molte di loro mantengono confini rigidi tra un'unità e l'altra, persistono a strutturarsi per «silos» funzionali e ad accettare che si creino al proprio interno veri e propri “feudi” che esaltando i vantaggi delle rendite di posizione ostacolano il rapido riallineamento delle diverse attività e funzioni indispensabile a un orientamento alla creazione continua di valore. Per non parlare dell’effetto “pensiero unico” che ammorba spesso quelle grandi realtà organizzative che comprendono migliaia di dipendenti, dove si produce un insalubre orientamento alla svalutazione di quella grande ricchezza, almeno secondo quanto possiamo imparare dalla biologia evoluzionista, che risiede nella divergenza e nella differenziazione. E allora che fare? Secondo Hamel, per sviluppare una maggiore capacità di adattamento, le aziende devono organizzarsi in unità più piccole e creare in questo modo strutture più fluide, basate su aggregazioni guidate dai   progetti. Una sorta di azienda organizzata a piatto di spaghetti, come suggerivano Jonas Ridderstrale e Kjell Nordström nel loro divertente, veggente e ispirato Funky business? Forse si, ma quel che é certo è che Hamel ha dalla sua gli esempi: Semco, Gore & Associates e tante altre aziende, più o meno partecipative nel modello di management, che rifuggono dalle sedi elefantiache le quali, va detto, quando le guardiamo, magari da lontano, fanno a noi tutti un effetto un po’ inquietante, con un che di faraonico e imperiale. Certo, tutto questo contraddice numerosi assiomi sulle economie di scopo e di scala ma…  viviamo in tempi interessanti, come dice un altro grande eretico, ma molto più estremista, del nostro decadente pensiero occidentale, Slavoj Zizek.

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

sabato 5 maggio 2012

Mindfulness è vacanza

Ho capito perché ci piace andare in vacanza. Serve a interrompere la routine. Bella scoperta, direte, ma così come va di moda oggi, ci attacco una bella dimostrazione basata sulle neuroscienze. Con rimando a Mindfulness di Daniel Siegel, sembra che le strutture abitudinarie che vanno, come dice lui, "dall'alto verso il basso", dove per alto s'intendono cognizioni e copioni emozionali stabiliti, ci impediscono di aprirci all'esperienza come tale, ovvero a sensazioni, cognizioni ed emozioni non predeterminate, non solite, non abitudinarie. Come dire: a forza di fare sempre le stesse cose diventiamo stupidi. E ci inaridiamo. E ci stanchiamo. La vacanza ci da nuove impressioni e così ci vivifica, ovvero produce nuovi sentieri neuronali, e questa sensazioni di emergente novità ci dà una nuova energia. Una volta si chiamava ricreazione. Ma mi domando: si deve per forza andare in vacanza? Una volta ho conosciuto un signore, credo in aula, che mi raccontava di fare percorsi diversi per andare al lavoro. Bene. Possiamo fare tutto in modo nuovo, anche mangiare l'uovo al tegamino che mangiamo di solito. Se ci concentriamo bene, scopriremo che non è mai lo stesso. I buddisti raccomandano di osservare come respiriamo. Provare per credere. Ci vogliono almeno dieci minuti, ma scoprirete che ogni respiro è diverso. E costruirete così nuovi sentieri neuronali, senza andare alle Maldive.

martedì 1 maggio 2012

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 9

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 9 è:

Reinventare il processo di formulazione della strategia come processo in divenire. In un mondo turbolento la formulazione delle strategie deve riflettere i principi biologici della varietà, della selezione e della conservazione.

Avete presente i piani quinquennali dell’Unione Sovietica? Non funzionavano, a differenza di quello che fanno oggi con grande abilità i cinesi, perché supponevano il completo controllo del processo. In un mondo turbolento come un tornado nel Golfo del Messico, la previsione è difficile, per non dire impossibile, e la pianificazione a lungo termine ha poco valore. Tutto accade come in Alice dietro lo Specchio, dove Lewis Carrol a un certo punto ci descrive una sorprendente partita di golf: le mazze sono fenicotteri e le palline porcospini arrotolati su se stessi. La peculiarità del gioco consiste nel fatto che i fenicotteri si muovono in mano ai giocatori, così come i porcospini, a loro volta, si srotolano e se ne vanno a zonzo per il prato. Ora, lungi dall’essere solo un divertissement, questa strana modalità di giocare a golf è stata pensata da Lewis Carrol, che era un logico, un matematico e un teorico dei sistemi di segni, per darci un’idea del mondo, e rappresenta benissimo il nostro. Sappiamo tutti, infatti, che oggi il mondo si muove, l’innovazione deflagra, la complessità cresce con curve esponenziali in ogni settore…. Insomma, il mondo prevedibile della meccanica è ormai tramontato ed è sorto un nuovo mondo che trova le sue metafore nei sistemi biologici e sociali, in sistemi caotici come l’atmosfera terrestre o addirittura nell’arte e nella creatività del gioco. Come dice John Kotter, forse il più osannato guru mondiale in materia di cambiamento organizzativo, nella nuova economia “è indispensabile saper inventare non solo nuove linee di prodotto, ma nuovi business e anche nuovi modelli economici e di organizzazione. Questo richiede una leadership che sappia mobilitare risorse intellettuali, fisiche e anche emozionali dentro l’azienda.”  E dunque se, per usare il titolo di un fortunato libro di Kotter, Il nostro iceberg si sta sciogliendo, che cos’ha fatto finora la comunità di pinguini che vi abita sopra per raccogliere la sfida e risolvere i problemi posti da nuovo ordine delle cose che si sta prospettando? Se la riposta è “pianificare”, allora proprio non ci siamo: non avete capito che avete a che fare con fenicotteri e porcospini! Oggi  i processi gestionali che cercano di pervenire alla «strategia migliore» attraverso metodi analitici di tipo top-down devono lasciare il posto a modelli basati sui principi biologici della varietà (generare numerose opzioni), della selezione (ricorrere a esperimenti a basso costo per sottoporre rapidamente a verifica le ipotesi cruciali) e ritenzione (riversare risorse nelle strategie che hanno maggiore presa nel mercato). Stop making strategy! In futuro, la dirigenza non formulerà la strategia, ma si impegnerà a creare le condizioni nelle quali le nuove strategie possano emergere ed evolvere. Insomma, per rimanere in tema di sistemi complessi, si occuperà dei vincoli, non del governo delle qualità emergenti. Ovvero, non di strategia, ma di metastrategia. 

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

venerdì 13 aprile 2012

Verità, bellezza, bontà

Ho letto questo libro di Howard Gardner, motivato dall’autorevolezza dell’autore, memore delle tesi di Formae mentis, un saggio sulla pluralità dell'intelligenza che mi ha trovato sostanzialmente d’accordo, e motivato pure, altresì, dalla coincidenza tra il titolo e i temi fondamentali della mia riflessione, e della riflessione filosofica nel suo insieme. Peraltro il sottotitolo del saggio: “educare alle virtù nel ventunesimo secolo” mi affascinava e speravo che il grande, davvero grande, intellettuale americano, uno di quelli capaci, come Noam Chomsky o George Steiner, di svariare tra le pieghe della cultura internazionale con uno sguardo d’insieme che spesso i solo europei non riescono ad applicare, ci desse qualche lume su questioni e problemi che interessano l’umanità più o meno da quando esiste. Ma sono rimasto deluso. Perché? Per due motivi. In primo luogo Gardner, attenendosi a uno stile analitico (da filosofia analitica, tipicamente anglosassone) rigoroso ma un po’ scabro e addirittura a volte noioso, non ci dà molto di più di quanto già sappiamo: la verità è fondamentale perché se mentiamo o pensiamo fesserie ci facciamo del male; la bontà è ciò che in fin dei conti, al di là delle diverse variazioni contestuali e culturali, tutti noi richiediamo agli altri e noi stessi, e su cui siamo in fondo abbastanza d’accordo quanto ai parametri fondamentali (non uccidere senza motivo, non fare i bastardi, mantenere gli impegni eccetera); la bellezza, il fascino della bellezza, ci interessa e ci motiva, anche se, ahimè, non siamo facilmente d’accordo su cosa sia bello oppure no. Tutto vero. Ma tutto qui? Ora, io penso che il vero interesse di mettere a tema questi concetti non stia tanto nella disanima separata del loro singolo status, ma nei collegamenti tra loro. E qui risiede il secondo motivo della mia delusione. Se infatti ha senso per noi preoccuparci di questi concetti o valori è perché ci dicono qualcosa di fondamentale su di noi, su ciò che veramente ci sta a cuore. E cosa ci interpella davvero al riguardo? Che la verità, la bellezza e la bontà in qualche modo si rispecchiano e si riverberano, ovvero sono, in fondo, per certi versi, la stessa cosa. Pensiamoci insieme. Una cosa vera non è forse anche un cosa buona? O meglio, come pensare che una menzogna o un errore siano una cosa buona? Le relazioni, spesso identitarie, tra etica e conoscenza sono un grande tema della riflessione filosofica, da Platone, anzi da Socrate, e forse da prima, in poi. Ed è pure vero che verità e giustizia (o bontà) a partire dall’età moderna sono state separate, e non solo per motivi surrettizi o storicamente determinati, perché è vero (vero) che una verità non è sempre buona (per esempio che hai una brutta malattia è vero, ma non è buono). Tuttavia resta il fatto che per ognuno di noi la verità è un parametro per decidere della bontà (o della giustizia) tant’è vero che nei tribunali si cerca di accertare la verità allo scopo di stabilire dove sta il bene e dove sta il male. Ma il vero grande assente in questo plesso problematico è il concetto di bellezza. Non voglio tirarla per le lunghe e ricorro a un aneddoto che cito spesso: dice Gregory Bateson (un altro grande intellettuale americano) che è molto facile capire qual è il capo di un branco di lupi. E’ il più bello. I greci dicevano kalos kai agathos, bello e buono. E Stendhal diceva che la bellezza è promessa di felicità. Come dire: la bellezza è armonia, e l’armonia è segno efficace di rapporti ben formati con l’ambiente, ovvero di giustizia e bontà, riconosciute come verità da chi vi è implicato. Ora, so perfettamente che procedere in modo acritico su questa strada ci riporta credere in Dio (che è vero, buono e bello) e sembra riproporre modelli propri di una società teocratica. Ma sta di fatto che qualcosa abbiamo perduto, e ne soffriamo. Ricomporre l’infranto (come diceva Benjamin)? Si, certo, perché l’infranto è l’inferno. Ma senza cedere alle lusinghe della totalitarietà. Perché se verità, bellezza e bontà alludono, nei loro diversi aspetti, a un Uno che le unisce e ne rende ragione, niente e nessuno sa a priori qual è. Non ci resta che costruirlo insieme.

giovedì 22 marzo 2012

The cluetrain manifesto

13 anni fa uscì questo manifesto. Credo sia ancora valido oggi. C'è da chiedersi perché: forse il pensiero va più veloce delle cose, o forse le cose vanno più lente di quello che dovrebbero o vorremmo. In ogni caso le 95 tesi del clue train manifesto sono ancora oggi fonte di ispirazione. E se ieri erano rivolte più al mercato che all'interno delle organizzazioni, oggi, mutatis mutandis, le stesse idee valgono per le organizzazioni. Con una precisazione: le organizzazioni non hanno più un dentro e un fuori. Ma anche di questo si parla qui sotto. E forse non a caso.
  1. I mercati sono conversazioni.
  2. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
  3. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
  4. Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa.
  5. Le persone si riconoscono l’un l’altra come tali dal suono di questa voce.
  6. Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media.
  7. Gli iperlink sovvertono la gerarchia.
  8. Sia nei mercati interconnessi che tra i dipendenti delle aziende intraconnessi, le persone si parlano in un nuovo modo. Molto più efficace.
  9. Queste conversazioni in rete stanno facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e un nuovo scambio della conoscenza.
  10. Il risultato è che i mercati stanno diventando più intelligenti, più informati, più organizzati. Partecipare a un mercato in rete cambia profondamente le persone.
  11. Le persone nei mercati in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro, che da chi vende. Lo stesso vale per la retorica aziendale circa il valore aggiunto ai loro prodotti di base.
  12. Non ci sono segreti. Il mercato online conosce i prodotti meglio delle aziende che li fanno. E se una cosa è buona o cattiva, comunque lo dicono a tutti.
  13. Ciò che accade ai mercati accade anche a chi lavora nelle aziende. L’entità metafisica chiamata "L’Azienda" è la sola cosa che li divide.
  14. Le aziende non parlano con la stessa voce di queste nuove conversazioni in rete. Vogliono rivolgersi a un pubblico online, ma la loro voce suona vuota, piatta, letteralmente inumana.
  15. Appena tra qualche anno, l’attuale "omogeneizzata" voce del business – il suono della missione aziendale e delle brochures – sembrerà artefatta e artificiale quanto il linguaggio della corte francese nel settecento.
  16. Le aziende che parlano il linguaggio dei ciarlatani già oggi non stanno più parlando a nessuno.
  17. Se le aziende pensano che i loro mercati online siano gli stessi che guardavano le loro pubblicità in televisione, si stanno prendendo in giro da sole.
  18. Le aziende che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione.
  19. Le aziende possono ora comunicare direttamente con i loro mercati. Se non lo capiscono, potrebbe essere la loro ultima occasione.
  20. Le aziende devono capire che i loro mercati ridono spesso. Di loro.
  21. Le aziende dovrebbero rilassarsi e prendersi meno sul serio. Hanno bisogno di un po’ di senso dell’umorismo.
  22. Avere senso dell’umorismo non significa mettere le barzellette nel sito web aziendale. Piuttosto, avere dei valori, un po’ di umiltà, parlar chiaro e un onesto punto di vista.
  23. Le aziende che cercano di "posizionarsi" devono prendere posizione. Nel migliore dei casi, su qualcosa che interessi davvero il loro mercato.
  24. Vanterie ampollose del tipo "Siamo posizionati per essere il primo fornitore di XYZ" non costituiscono un posizionamento.
  25. Le aziende devono scendere dalla loro torre d’avorio e parlare con la gente con la quale vogliono entrare in contatto.
  26. Le Pubbliche Relazioni non si relazionano con il pubblico. Le aziende hanno una paura tremenda dei loro mercati.
  27. Parlando con un linguaggio lontano, poco invitante, arrogante, tengono i mercati alla larga.
  28. Molti programmi di marketing si basano sulla paura che il mercato possa vedere cosa succede realmente all’interno delle aziende.
  29. Elvis l’ha detto meglio di tutti: "Non possiamo andare avanti sospettandoci a vicenda".
  30. La fedeltà a una marca è la versione aziendale della coppia fissa, ma la rottura è inevitabile ed è in arrivo. Poiché sono in rete, i mercati intelligenti possono rinegoziare la relazione con incredibile rapidità.
  31. I mercati in rete possono cambiare fornitore dalla sera alla mattina. I lavoratori della conoscenza in rete possono cambiare datore di lavoro nel tempo dell’intervallo del pranzo. Le vostre "iniziative di downsizing" ci hanno insegnato a domandarci "La fedeltà? Cos’è?"
  32. I mercati intelligenti troveranno i fornitori che parlano il loro stesso linguaggio.
  33. Imparare a parlare con voce umana non è un gioco di società. E non può essere improvvisato a un qualsiasi convegno solo per darsi un tono.
  34. Per parlare con voce umana, le aziende devono condividere i problemi della loro comunità.
  35. Ma prima, devono appartenere a una comunità.
  36. Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura di impresa.
  37. Se la loro cultura finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato.
  38. Le comunità umane sono basate sulla comunicazione – su discorsi umani su problemi umani.
  39. La comunità della comunicazione è il mercato.
  40. Le aziende che non appartengono a una comunità della comunicazione sono destinate a morire.
  41. Le aziende fanno della sicurezza una religione, ma si tratta in gran parte di una manovra diversiva. Più che dai concorrenti, la maggior parte si difende dal mercato e dai suoi stessi dipendenti.
  42. Come per i mercati in rete, le persone si parlano direttamente anche dentro l’azienda – e non proprio di regole e regolamenti, comunicazioni della direzione, profitti e perdite.
  43. Queste conversazioni si svolgono oggi sulle intranet aziendali. Ma solo quando ci sono le condizioni.
  44. Di solito le aziende impongono l’intranet dall’alto, per distribuire documenti sulla politica del personale e altre informazioni aziendali che i dipendenti fanno del loro meglio per ignorare.
  45. Le intranet emanano noia. Le migliori sono quelle costruite dal basso da singole persone che si impegnano per dare vita a qualcosa di molto più valido: una conversazione aziendale in rete.
  46. Una intranet in buona salute organizza i dipendenti nel più ampio significato del termine. Il suo effetto è più radicale di qualsiasi piattaforma sindacale.
  47. Se questo spaventa a morte le aziende, è pur vero che esse dipendono fortemente dalle intranet aperte per far emergere e condividere le conoscenze più importanti. Devono resistere all’impulso di "migliorare" o tenere sotto controllo queste conversazioni in rete.
  48. Quando le intranet aziendali non sono condizionate da timori o da un eccesso di regole, incoraggiano un tipo di conversazione molto simile a quella dei mercati in rete.
  49. Gli organigrammi funzionavano nella vecchia economia, in cui i piani dovevano essere ben compresi da tutta la piramide gerarchica e dettagliati piani di lavoro potevano scendere dall’alto.
  50. Oggi, l’organigramma è fatto di link, non di gerarchie. Il rispetto per la conoscenza vince su quello per l’autorità astratta.
  51. Gli stili di management basati sul comando e sul controllo derivano dalla burocrazia e al tempo stesso la rafforzano. Il risultato sono la lotta per il potere e una cultura di impresa paranoica.
  52. La paranoia uccide la conversazione. Questo è il punto. Ma la mancanza di conversazione uccide le aziende.
  53. Ci sono due conversazioni in corso. Una all’interno dell’azienda, l’altra con il mercato.
  54. Nessuna delle due va bene, nella maggior parte dei casi. Quasi sempre, alla base del fallimento ci sono le vecchie idee di comando e controllo.
  55. Come politica di impresa, queste idee sono velenose. Come strumenti, sono fuori uso. Comando e controllo sono visti con ostilità dai lavoratori della conoscenza e con sfiducia dai mercati online.
  56. Queste due conversazioni vogliono parlare l’una con l’altra. Parlano lo stesso linguaggio. Si riconoscono l’un l’altra dalla voce.
  57. Le aziende intelligenti si faranno da parte per far accadere l’inevitabile il prima possibile.
  58. Se la volontà di farsi da parte è presa come parametro del quoziente di intelligenza, allora veramente poche aziende si mostrano rinsavite.
  59. Seppur subliminalmente, milioni di persone sulla rete percepiscono ormai le aziende come strane finzioni legali che fanno di tutto perché queste due conversazioni non si incontrino.
  60. Questo è suicidio. I mercati vogliono parlare con le aziende.
  61. E’ triste, ma la parte di azienda con cui i mercati vogliono parlare è spesso nascosta dietro una cortina di fumo, il cui linguaggio suona falso – e spesso lo è.
  62. I mercati non vogliono parlare con ciarlatani e venditori ambulanti. Vogliono partecipare alle conversazioni che si svolgono dietro i firewall delle aziende.
  63. Sveliamoci e parliamo di noi: quei mercati siamo Noi. Vogliamo parlare con voi.
  64. Vogliamo accedere alle vostre informazioni, ai vostri progetti, alle vostre strategie, ai vostri migliori cervelli, alle vostre vere conoscenze. Non ci accontentiamo delle vostre brochures a 4 colori, né dei vostri siti Internet sovraccarichi di bella grafica ma senza alcuna sostanza.
  65. Noi siamo anche i dipendenti che fanno andare avanti le vostre aziende. Vogliamo parlare ai clienti direttamente, con le nostre voci e non con i luoghi comuni delle brochures.
  66. Come mercati, come dipendenti, siamo stufi a morte di ottenere le informazioni da un lontano ente di controllo.
  67. Come mercati, come dipendenti, ci domandiamo perché non ci ascoltate. Sembrate parlare una lingua diversa.
  68. Il linguaggio tronfio e gonfio con cui parlate in giro – nella stampa, ai congressi – cosa ha a che fare con noi?
  69. Forse fate una certa impressione sugli investitori. Forse fate una certa impressione in Borsa. Ma su di noi non fate alcuna impressione.
  70. Se non fate alcuna impressione su di noi, i vostri investitori possono andare a fare un bagno. Non lo capiscono? Se lo capissero, non vi lascerebbero parlare così.
  71. Le vostre vecchie idee di "mercato" ci fanno alzare gli occhi al cielo. Non ci riconosciamo nelle vostre previsioni – forse perché sappiamo di stare già da un’altra parte.
  72. Questo nuovo mercato ci piace molto di più. In effetti, lo stiamo creando noi.
  73. Siete invitati, ma è il nostro mondo. Levatevi le scarpe sulla soglia. Se volete trattare con noi, scendete dal cammello.
  74. Siamo immuni dalla pubblicità. Semplicemente dimenticatela.
  75. Se volete che parliamo con voi, diteci qualcosa. Tanto per cambiare, fate qualcosa di interessante.
  76. Abbiamo qualche idea anche per voi: alcuni nuovi strumenti, alcuni nuovi servizi. Roba che pagheremmo volentieri. Avete un minuto?
  77. Siete troppo occupati nel vostro business per rispondere a un’e-mail? Oh, spiacenti, torneremo. Forse.
  78. Volete i nostri soldi? Noi vogliamo la vostra attenzione.
  79. Interrompete il viaggio, uscite da quell’auto-coinvolgimento nevrotico, venite alla festa.
  80. Niente paura, potete ancora fare soldi. A patto che non sia l’unica cosa che avete in mente.
  81. Avete notato che di per sé i soldi sono qualcosa di noioso e a una sola dimensione? Di cos’altro possiamo parlare?
  82. Il vostro prodotto si è rotto. Perché? Vorremmo parlare col tipo che l’ha fatto. La vostra strategia aziendale non significa niente. Vorremmo scambiare due parole con l’amministratore delegato. Che vuol dire che "non c’è"?
  83. Vogliamo che prendiate sul serio 50 milioni di noi almeno quanto prendete sul serio un solo reporter del Wall Street Journal.
  84. Conosciamo alcune persone della vostra azienda. Sono piuttosto bravi online. Ne nascondete altri, di bravi? Possono uscire ed entrare in gioco anche loro?
  85. Quando abbiamo delle domande, ci cerchiamo l’un l’altro per le risposte. Se non esercitaste un tale controllo sulle "vostre persone", sarebbero anche loro tra le persone che cercheremmo.
  86. Quando non siamo occupati a fare il vostro "mercato target", molti di noi sono le vostre persone. Preferiamo chiacchierare online con gli amici che guardare l’orologio. Questo farebbe conoscere il vostro nome molto di più del vostro sito internet da un milione di dollari. Ma siete voi a dirci che è la Divisione Marketing che deve parlare al mercato.
  87. Ci piacerebbe che sapeste cosa sta succedendo qui. Sarebbe davvero bello. Ma sarebbe un grave errore pensare che ce ne stiamo con le mani in mano.
  88. Abbiamo di meglio da fare che preoccuparci se riuscirete a cambiare in tempo. Il business è solo una parte della nostra vita. Sembra essere invece tutta la vostra. Pensateci: chi ha bisogno di chi?
  89. Il nostro potere è reale e lo sappiamo. Se non riuscite a vedere la luce alla fine del tunnel, arriverà qualcuno più attento, più interessante, più divertente con cui giocare.
  90. Anche nel peggiore dei casi, la nostra nuova conversazione è più interessante della maggior parte delle fiere commerciali, più divertente di ogni sitcom televisiva, e certamente più vicina alla vita di qualsiasi sito web aziendale.
  91. Siamo leali verso noi stessi, - i nostri amici, i nostri nuovi alleati, i nostri conoscenti, persino verso i nostri compagni di battute. Le aziende che non fanno parte di questo mondo non hanno nemmeno un futuro.
  92. Le aziende stanno spendendo miliardi di dollari per il problema dell’Anno 2000. Come fanno a non sentire la bomba a orologeria nei loro mercati? La posta in gioco è persino più alta.
  93. Siamo dentro e fuori le aziende. I confini delle nostre conversazioni sembrano il Muro di Berlino di oggi, ma in realtà sono solo una seccatura. Sappiamo che stanno crollando. Lavoreremo da entrambe le parti per farle venire giù.
  94. Alle aziende tradizionali le conversazioni online possono sembrare confuse. Ma ci stiamo organizzando più rapidamente di loro. Abbiamo strumenti migliori, più idee nuove, nessuna regola che ci rallenti.
  95. Ci stiamo svegliando e ci stiamo linkando. Stiamo a guardare, ma non ad aspettare.

domenica 18 marzo 2012

Humanistic Management 2.0: la visione di Gary Hamel

"Gary Hamel sta diventando uno dei paladini del passaggio dal Management 1.0 allo Humanistic Management 2.0. Abbiamo già dato conto del pensiero espresso in un suo post pubblicato sul tema a novembre. Hamel adesso ha scritto un nuovo articolo che offre altri interessanti spunti di riflessione e che vale la pena riprendere anche alla luce dell’indagine Delphi 2.0 La rivoluzione social e le aziende cui stanno aderendo numerosi manager ed esperti italiani e che è tuttora in corso..." Per tutto l'articolo di Marco Minghetti, molto interessante e denso di informazioni, clicca sul titolo di questo post.

mercoledì 7 marzo 2012

La morte è una seccatura

"La baronessa von Zumpe disse, e forse fu l'unica a parlare con franchezza, che la morte era una seccatura".""La baronessa von Zumpe disse, e forse fu l'unica a parlare con franchezza, che la morte era una seccatura".

Roberto Bolano, 2066, p. 737
Roberto Bolano, 2066, p. 737

mercoledì 22 febbraio 2012

L'essenziale

"Facevano colazione, per così dire, coi gomiti appoggiati sull'angoscia e sul dubbio. Appoggiati sull'essenziale che non porta da nessuna parte."

Roberto Bolano, 2666, p. 601

lunedì 13 febbraio 2012

domenica 12 febbraio 2012

L’“Organizzazione individualizzata” di Bartlett e Ghoshal

Secondo Bartlett e Ghoshal nel contesto economico attuale, caratterizzato da una forte competizione basata sulla conoscenza e sui servizi, la chiave del vantaggio competitivo sta nella creatività e nell’iniziativa delle persone. Di qui il concetto di Organizzazione Individualizzata ovvero un’organizzazione in grado di «valorizzare la conoscenza idiosincratica e le abilità uniche di ogni individuo lavoratore». Secondo i due studiosi, le organizzazioni che intendono realizzare questo obiettivo devono costituirsi intorno a tre macroprocessi decisivi:

1) Il processo di rinnovamento. Affidato ai top manager, consiste nella continua rimessa in discussione delle credenze e delle pratiche che sono alla base delle strategie di business dell’organizzazione. Per fare questo i top manager devono andare oltre i loro compiti tradizionali di disegno delle strategie, definizione di strutture e guida dei sistemi, per occuparsi invece soprattutto di scopi organizzativi, processi organizzativi e sviluppo delle risorse umane (ovvero le “tre p”: purpose, processes, people).

2) Il processo di integrazione. Affidato ai middle manager, consiste nella costruzione di più ampie e diverse capacità organizzative basate sul collegamento delle diverse competenze, allo scopo di massimizzare le potenzialità del capitale sociale e intellettuale dell’organizzazione.

3) Il processo imprenditoriale. Affidato ai front-line manager, consiste nella continua ricerca e sviluppo di nuove opportunità di business e comporta la creazione di piccole unità organizzative dotate di larga autonomia decisionale.

Per tutto quanto sopra cfr. S. Ghoshal, C:A. Bartlett, The Individualized Corporation, London, William Heinemann, 1997. S. Ghoshal, C. A. Bartlett, Changing the role of Top Management: beyond strategy to purpose, in “Harward Business Review”, Novembre Dicembre 1994.

domenica 22 gennaio 2012

Comunità

Le gerarchie sono estremamente efficaci per aggregare lo sforzo. Ma quando bisogna mobilitare le capacità umane, le comunità fanno meglio delle burocrazie.

Gary Hamel Il futuro del management