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domenica 28 febbraio 2010
Cose mai viste
G.B. Shaw, Torniamo a Matusalemme
sabato 27 febbraio 2010
Una nuova scienza
Gregory Bateson, Là dove gli angeli esitano
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 4
Debellare le patologie della gerarchia formale. Le gerarchie naturali, dove il potere procede dal basso verso l’alto e i leader emergono anziché essere nominati, comportano numerosi vantaggi.
Questa è una cosa che sanno tutti: chi non ha avuto un capo idiota? E chi non ha patito per la necessità di rispettare delle linee gerarchiche che non hanno nessun valore reale? Nulla è più triste e grottesco di un capo non rispettato. E poche cose sono altrettanto costose per un'organizzazione e per le persone che ne fanno parte. D'altra parte si dice spesso che non si può fare altrimenti, perchè le gerarchie, si sa, vanno rispettate, quand'anche siano funzionali agli obiettivi.... come si vede queste affermazioni hanno qualcosa di contradditorio. Il punto è che se in situazioni "tranquille" è possibile tollerare gerarchie poco sentite dalle persone, quando bisogna combattere in fertta e bene le cose vanno diversamente: guardate cosa succede a una squadra di calcio dove il capitano viene osteggiato dagli altri... E allora che fare? Purtroppo il responso da dare è duro: molto semplicemente bisogna evitare di dare responsabilità a capi di scarso valore. E forse la parola chiave è proprio questa: responsabilità. Dei leader e dei followers - anche nelle aziende vale la massima per cui un popolo, compresi gli azionisti, ha il governo che si merita. Vi sono aziende che hanno risolto il problema alla radice: i capi sono quelli che si fanno ascoltare. Come dice Rick Buckingham, direttore di produzione dei tessuti tecnici di W.L. Gore&Associates: "Se convochi una riunione e la gente si presenta, vuol dire che sei un leader."
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
lunedì 8 febbraio 2010
Manager con la filosofia
«Ora che il lettore ha percorso il suo cammino al fianco di alcuni grandi filosofi, tutto comincia!
Ora infatti non si tratta più di leggere, ma di lavorare con la filosofia. Non si tratta più di capire, ma di realizzarsi attraverso le azioni.. Cambiare atteggiamento significa assumersi un rischio e agire in maniera diversa significa accettare l’incertezza. L’incertezza fa paura, la vita fa paura. E’ per questo che chi non rischia nulla non ottiene nulla e chi non cambia è già morto.
Fare filosofia in azienda significa:
Porre domande quando tutto sembra chiaro
Definire quando tutto sembra evidente
Passare dalla comunicazione al dialogo
Dare un fondamento quando tutto passa
Essere creativi in un ambiente standardizzato
Apparire in accordo con se stessi
Bisogna andare controcorrente in un’epoca che preferisce:
Le cifre alle domande
I fuochi artificiali alla luce del giorno
I discorsi al dialogo
Il visibile all’invisibile
La sicurezza alla fiducia
La trasparenza alla chiarezza
Lavorando in questo modo, il manager di oggi crea il mondo di domani!».
Eugénie Vegrelis, Manager con la filosofia
...e per chi vuole sapere di più, potrà leggere a breve una mia recensione al libro citato sulla rivista Phronesis, che trovate a www.phronesis.info
sabato 6 febbraio 2010
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 3
Ricostruire le fondamenta filosofiche del management. Per creare organizzazioni che siano ben più che semplicemente efficienti, avremo bisogno di attingere agli insegnamenti di campi come la biologia, le scienze politiche e la teologia.
Bè.. su questa (grazie Gary Hamel!) ci vado a nozze: non avete idea, o forse sì, se vivete in azienda, di quante persone, manager e dirigenti, siano dei perfetti ignoranti riguardo a una serie di cose imprescindibili per capire il mondo di oggi.Per esempio, credo che pochi manager sappiano perchè le funzioni o equazioni lineari non funzionino nei sistemi complessi, oppure cosa sia la determinazione posteriore del senso , o il mana o una profezia che si autoavvera. Tutte cose altrettanto importanti di quelle che hanno studiato alla Bocconi (va detto che magari se sono stati all'INSEAD qualcosa ne sanno...) .. e che poi magari hanno pure dimenticato, poverini, facendo per anni i promo per il cioccolatino COSO o altre amenità del genere. Non ce l'ho coi manager sia chiaro: è che il sistema in cui li allevano è vecchio. Non funziona più, è un'istituzione decotta. Per questo hanno bisogno di pensiero nuovo. O di romanzi, come dice il dottor Celli ... o di un po' di filosofia, che li aiuti a pensare in modo un po' più rotondo, più ricco, più fecondo. Non ci vuole molto. Basta impiegare un po' di tempo a riflettere... ma bisogna spegnere gli smartphone, e credere fermamente che nelle prossime due ore non sarai proprio necessario a questo mondo. Per convicersene, consiglio un bel giretto al Cimitero Monumentale, pieno zeppo, come diceva Charles de Gaulle, di "uomini indispensabili".
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
martedì 2 febbraio 2010
Il proprio dell'uomo
Giorgio Agamben, La potenza del pensiero
La mia amica Paola Santagostino mi dice che spesso non si capisce quello che dico. E rileggendo la citazione di cui sopra, comprendo come sia un poco criptica (che vuol dire poco chiara). E dunque la spiego. Il *se di cui parla Agamben è la parola indoeuropea, molto antica, da cui derivano parole come "sè", "suo" (nel senso latino di "suus", che significa "proprio") e pure "solvere" ovvero la parola latina da cui deriva la nostra "soluzione". Quello che Agamben intende dire, in pratica, è che noi, nel nostro più proprio essere, non siamo nè un segreto che resta sempre da scoprire, un non detto, un "quid" indicibile che si deve sempre spiegare e rispiegare, e nemmeno, come dicono i nichilisti, un nulla, un niente, uno zero, un illusione senza senso. La nostra più vera essenza, invece, dice Agamben, altro non è che ciò che facciamo, il nostro rapporto con gli altri. Senza null'altro dietro, senza segreti, senza trucchi. Siamo quello che siamo: irrimediabilmente. Il che tra l'altro significa che siamo tutti solo fuori. Non c'è più un dentro da interpretare. E nessuno che possa farlo. Siamo del tutto esposti. O meglio, pubblici. Siamo quello che sembriamo (c'è una trasmissione televisiva che ha come pay off "niente è come sembra". Ecco, oggi questo è un discorso reazionario: ci vogliono illudere che ci sia un senso segreto delle cose... ma è roba vecchia, come un un fotoromanzo: il senso segreto non c'è più, e il vero segreto è che non c'è nessun segreto).