Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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domenica 17 luglio 2011

Il soggetto postraumatico: il vuoto interiore

“Ultimamente, Halliday si era reso conto di essere persino in grado di convivere con la propria non-esistenza, visto che non aveva senso piangere troppo a lungo la scomparsa di qualcosa – vale a dire di un se stesso – che nemmeno riusciva più a ricordare. Tutto ciò costituiva un motivo di ansia, ma di un’ansia ormai vecchia di giorni. Quello di adesso invece era un sintomo fisico. Riguardava l’esatta metà della testa, cranio e cervello, ed era una sensazione semplicemente non-definibile. Anzi, la si sarebbe potuta descrivere come l’improvvisa scomparsa di una sensazione talmente consueta e continua da non essere più percepita, come un suono di cui ci si accorga solo nell’attimo in cui si interrompe.” Il motivo per cui ho riportato questo passo di Amsterdam di Ian McEwan è che credo ci possa introdurre al mondo del soggetto postraumatico, di cui vorrei occuparmi per un po’, annunciando fin da subito che intendo per soggetto postraumatico da una parte quello che risulta da stress profondi e massivi, come per esempio un’esplosione, ma anche vi vedo, dall’altra, con il conforto di autori quali Zizek e Agamben, il paradigma della nostra condizione ipermoderna. In particolare, nel brano citato sopra, trovo interessante che il considerarsi inesistente sia cosa consueta, esattamente come accadde a noi nello scorso secolo con i paradossi del cogito cartesiano ovvero del soggetto moderno, che si scoprì per l'appunto inesistente, o per lo meno inconsistente, diviso e straniero a se stesso. Ma la novità, la cosa in questione, sta nella diversa percezione che s’annuncia, quasi subdolamente o meglio, in modo quasi strisciante, inapparente, asemantico: è sparito qualcosa di quasi-fisico e a questo qualcosa di quasi-fisico sono legati da una parte l’idea di una sensazione “consueta e continua”, come dire, una sorta di base continua (forse il cogito stesso, azzardo, anch’esso peraltro, come detto poco sopra, consueto), dall’altra la scomparsa di un sentire, o meglio forse del sentire stesso, ovvero del sentirsi sentire. Che il romanzo di McEwan si apra con una fulminante morte per Alzheimer non mi pare a questo punto un caso. Come non credo sia un caso che poco dopo, il nostro vacuo Halliday si senta meglio perché “adesso che era di nuovo in mezzo alla gente, immerso nel proprio lavoro, il vuoto interiore non lo affliggeva più”. Cosa abbiamo perduto? Perché la vita ci sembra senza senso? Cosa possiamo fare al riguardo? Credo che condividiamo tutti questi interrogativi. Come pure l'assenza di risposte. E forse vale la pena di cercarle.

giovedì 14 luglio 2011

Amore e Saggezza

"L'amore dice 'Io sono tutto'. La saggezza dice 'Io non sono nulla'. Fra questi due scorre la mia vita"

Sri Nisargadatta

domenica 3 luglio 2011

La bellezza é metafora

La bellezza è davvero, come diceva Sthendal, promessa di felicità? Io credo di sì, e ritengo che al riguardo vi siano oggi punti d’appoggio nelle neuroscienze. Infatti, non solo sono stati elaborati alcuni “principi” di neuroestetica (Ramachandran), ma più in generale penso che nella bellezza risuoni la metafora (o l’analogia) della metafora (o dell’analogia). Mi spiego. Se come pare, simulazione, replica e così via sono alla base del nostro sistema nervoso e di funzioni basilari quali la percezione, memoria, immaginazione e previsione (su questi argomenti posso rimandare a un libro di cui sono coautore: IES – Intelligenza empatico sociale, Franco Angeli; il sottitolo è: dai neuroni specchio allo sviluppo delle organizzazioni) allora metafora e analogia sono i “mattoni”, anzi i “funtori” chiave dei processi mentali (cosa che tra l’altro per certi versi sostiene o accenna di sostenere lo stesso Ramachandran). E se così è, perché non vedere nell’esperienza della bellezza l’esperienza ovvero l’analogia della metafora stessa? Da questo punto di vista una cosa bella sarebbe una sorta di esempio preclaro di buona metaforizzazione, una specie, per l’appunto, di metafora ben riuscita per antonomasia, il ricordo di una simulazione che risimulando la simulazione assurge ad archetipo stesso del simulare. Ovvero del meccanismo “x somiglia e sta per y”… cosa che tra l’altro sarebbe perfettamente coerente con la teoria estetica (poco nota in Italia) di Danto, il quale sostiene che un’opera d’arte è tale perché dichiarata tale, laddove nel meccanismo del dichiarare ci vedo il meccanismo dell’exemplum o se vogliamo della segnatura (Agamben) per cui estraendo un membro da una classe (quello più rappresentativo, quello che assomiglia di più – con un plus ovvero un “non so che” di somiglianza - a tutti i membri della classe) lo si rende segno e “nome” della classe stessa (è il meccanismo dell’antonomasia, ovvero quello per cui i fazzolettini di carta si chiamavano un tempo kleenex – che era una marca… archetipica). Insomma, anche qui ci vedo, in modo per quanto, ammetto, ancora embrionale e un po’ confuso, una sorta di convergenza e sovrapposizione tra rappresentare, significare e analogizzare per mezzo dell’esemplificazione analogizzante. Se ciò è vero, ne consegue a mio parere, che oggi l’arte contemporanea da una parte esibisce questo stesso meccanismo (che potremmo davvero chiamare come il suo fondamento neurologico “meccanismo specchio”) e dall’altro lo tradisce, ponendosi a un tempo a livello di eresia dell’arte o antiarte e, insieme, di discorso sull’arte. Che in questa deriva si perda l’esperienza dell’arte “bella” è cosa su cui meditare e credo sia analoga (ancora) a quella del capitalismo di oggidì, quello che ci costringe a scomposte e ossessive performance di sostituzione compulsiva dell’oggetto – e ci consegna così a un pulsione senza desiderio dove nel vortice del “godi più che puoi” ci si può tranquillamente infilare anche ciò che è brutto, disgustoso ed esecrabile. Qui forse si cela il mistero dell’emergere del kakon quale idolo nascosto della contemporaneità. Che è il negativo, in calco, forse, della felicità promessa dalla (perduta, come peraltro sempre forse essa è) bellezza. Per esprimerci una volta tanto davvero cripticamente: se il recupero del premoderno è garanzia a salvezza del senso messianico racchiuso nel movimento incessante della modernità, il futuro dell’arte non sta nella infinita metonimia del gioco del furetto (Lacan) della performance sempre nuova e diversa. E nemmeno nella metarte fine a sé stessa.

sabato 25 giugno 2011

Il nulla del nulla

"...il sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento é vivo, come nel caso ch'io dico, la sua vivacità prevale nell'animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l'anima riceve vita (se non altro passeggera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria". Splendide e icastiche parole di Leopardi (Zibaldone, 261) che ci mostrano una vola per tutte come il rapporto tra vita e morte sia a dir poco non semplice, come ho cercato di spiegare in un libro di prossima pubblicazione (Harry Potter e la (tua) morte). Anzi, volendo esagerare, varrebbe la pena di pensare al rapporto tra vita e morte come a un rapporto storico-dialettico, come quello che lega in Walter Benjamin il ricordo e la redenzione. Ovvero, per chiudere senza troppe filosofisterie: la depressione ha sempre un che di ideologico... tant'è che una delle modalità di approcciarla tipica della terapia strategica è chiedere al depresso: "ma come ci riesce a farcela, come le riesce di essere depresso?" Non prenda il lettore tutto questo in modo superficiale - ovvero lineare. Quello che intendo dire è che tutte queste... diciamo così, "nozioni" (vita, morte, ricordo, redenzione, nulla ecc.) non sono mai un che di dato, come peraltro a dire il vero nient'altro, ma, come ci ha magistralmente insegnato Michel Foucault, eminenti e basilari, nonchè mutevoli, costrutti storici.

Vita e sopravvivenza

Dice Zizek in Vivere alla fine dei tempi (pag. 18) che per ingaggiare la nostra battaglia politica, secondo "la formula di Badiou mieux vaut un désastre qu'un désètre, meglio correre un rischio e impegnarsi nella fedeltà a un Evento di verità, anche se si conclude con una catastrofe, che vegetare in quella sopravvivenza utilitaria-edonistica e priva di eventi che Nietzsche chiamò, "l'ultimo uomo". Ciò che Badiou rifiuta è quindi l'ideologia liberale del vittimismo, con la sua riduzione della politica a un programma per evitare il peggio, per rinunciare a tutti i progetti positivi e seguire l'opzione del meno peggio. Specialmente perché, come osservò amaramente lo scrittore ebreo viennese Arthur Feldmann, il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita". Si, concordo del tutto, ma Zizek non ci spiega come fare. Perché il vero problema è che a volte ci s'ingaggia nel suddetto Evento di verità, e ci si resta fregati. Non solo perché si perde, ci mancherebbe, perdere è possibile, ma perché si scopre solo dopo che non era un Evento di verità, ma una fola, un fantasma, uno spettro. Insomma quello che ci manca è un rivelatore di verità, o per lo meno un metodo per non sparare nel mucchio. Per dirla in parabola, se San Paolo sulla via di Damasco ha capito che era Dio che gli parlava, oggi probabilmente avrebbe qualche dubbio e magari andrebbe dallo psichiatra. Senza di questo, senza questo metodo (brutta parola ne convengo, ma suona bene in un contesto che ha sempre favoleggiato di un "metodo rivoluzionario": Zizek è comunista), senza un qualcosa che ci consenta di scegliere con un minimo di probabilità a favore, avranno sempre la meglio quelli che ti promettono di soddisfare, come diceva ancora Nietzsche "una vogliuzza per la mattina e una per il pomeriggio". Insomma concludendo: per non oziare per sempre a Las Palmas (come evocava James Ballard nello splendido suo racconto Tanti saluti da Las Palmas) ci vuole qualcosa che ci scuota, si, ma anche qualcosa che ci dia un po' di ragionevole speranza.

martedì 7 giugno 2011

Le questioni più scottanti

Husserl in Die Krisis der europäischen Wissenschaft und die transzendentale Phänomenologie (trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002) scriveva “Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso e l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale”.

Mi colpisce che Husserl parlasse così già nel 1954, perché la questione posta in questo modo é comprensibile solo sullo sfondo della nostra contemporanea civiltà - e dunque aveva visto bene e abbastanza in anticipo. Nessun'altra civiltà si é infatti mai ritrovata di fronte al problema dell'assenza di senso, proprio perché il "senso" è un costrutto della civiltà stessa. La cosa rimarcabile é che noi abbiamo prodotto una civiltà che non fa più la civiltà, ovvero non si pone come culla del senso.

Siamo una civiltà senza senso. E dunque ci manca.

lunedì 30 maggio 2011

Gerarchia o comunità?

"Le gerarchie sono estremamente efficaci per aggregare lo sforzo. Ma quando bisogna mobilitare le capacità umane, le comunità fanno meglio delle burocrazie."


Gary Hamel, Il futuro del management

lunedì 16 maggio 2011

La vita dei morti

"Non c'era fretta, ma l'idea di fare qualcosa per una persona morta lo rincuorava". Sono parole scritte da Qiu Xiaolong in Quando il rosso é il nero, libro che vi consiglio insieme a tutti gli altri dello stesso scrittore, un cinese in U.S.A dall'89 che ambienta le sue detective story a Shangay, nella Cina degli anni di Deng Xiaoping. Si tratta di un modo accattivante per farci conoscere dall'interno una realtà che non ci é nota e forse un modo intrigante per conoscere il mondo in genere: la detective story, infatti, è oggi il genere di letteratura di maggior successo. Ma perché? Appunto... vediamo. Intanto è una ricerca e, come dice Xiaodong stesso in uno dei suoi retri di copertina, permette di bussare a molte porte diverse. E' dunque, e inoltre, una quest, o forse un Odissea (ma dove mai ci fa tornare?). Inoltre come molti hanno detto già prima di me, la tensione è verso la colmazione di una mancanza, la ricostituzione di un equilibrio lacerato dal delitto. Tuttavia c'è qualcosa ancora di impensato, credo, nel successo clamoroso del "giallo" come modo per avventurarsi nel mondo. E non credo sia solo questione di ripristinare un equilibrio, secondo una visione molto ingenieristica ed omeostatica del da farsi di derivazione molto occidentale. Certamente la morte, il morto giocano un ruolo essenziale nel fascino del "giallo", ma ci voleva forse proprio un cinese, un "altro", uno straniero, per rivelarci quel che forse non vediamo: fare qualcosa per i morti, forse è proprio questo il punto. Il "giallo" é forse, in fondo, quella preghiera che non sappiamo più fare. Non dunque un equilibrio da ridare ai vivi, ma una pace da donare ai morti. Si, ci voleva davvero un cinese per ricordarci che i morti non sono solo morti. Infatti sono stati vivi.