Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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sabato 5 ottobre 2013

Sei all'altezza di te stesso?

"Il rimorso di coscienza è una scostumatezza."

Friedrich Nietzsche, Frammenti Postumi, 1888 


domenica 22 settembre 2013

L'infinito intrattenimento

Era il titolo di un libro di Blanchot ma in realtà, benchè non ricordi dove, questa striscia veniva presentata come illustrativa del decostruzionismo di Derrida. Su costui vi ho scritto una tesi di dottorato... e anche se ovviamente la striscia è riduttiva, vi assicuro che mi fa sbellicare dalle risate. Vale per tutta l'ermeneutica, peraltro, motivo per cui si comprende il buon gioco avuto in questi tempi dai nuovi scopritori della realtà (cfr. Bentornata realtà a cura di M. Ferraris). 


domenica 25 agosto 2013

La passione è stile (o ha stile?)

“Una passione non si può esprimere pacatamente, disciplinatamente, morigeratamente, e nessuno può definirne la forma al posto di un altro.”

Magda Szabò, La porta

giovedì 15 agosto 2013

Fare ripartire l'Italia: una proposta

Come si può fare ripartire le imprese italiane, soprattutto le PMI? Ecco la risposta:

“Il fattore chiave, emerso in tutte le esperienze, è la capacità di valorizzare le competenze e le conoscenze che ogni singola impresa ha disponibili al suo interno. Molto spesso la capacità di riorganizzare le competenze e rivitalizzare il capitale umano dell’impresa è la via più economica per attivarne il rilancio, insieme al processo di internazionalizzazione per diversificare l’accesso ai mercati. Le imprese che in questi anni hanno saputo, e potuto, perseguire la via alta dello sviluppo, attraverso investimenti in processi innovativi, in formazione per il capitale umano, in riorganizzazione più efficiente delle procedure e maggiore presenza sui mercati internazionali, sono state molto spesso protagoniste di importanti esperienze di rinascita.”

Il testo qui sopra è tratto dal Working Paper in cui sono presentati gli atti del seminario “Economia e Società della Conoscenza: le sfide in atto per imprese e territori” che si è svolto il 15 marzo 2013 presso la sede di Torino di Confindustria Piemonte. Il seminario è stato promosso e realizzato dalla Fondazione Adriano Olivetti, con la collaborazione del BRICK/Bureau for Research in Innovation, Complexity and Knowledge dell’Università di Torino e di Confindustria Piemonte.

Ora ci viene spontanea la domanda: perché le PMI italiane non lo fanno (o per lo meno lo fanno in pochissime)? Credo che sia per mancanza di cultura, di prospettive, di proattività e di fiducia. Tra le altre cose nei consulenti, che vent'anni di malaffare e malcostume a livello tanto pubblico quanto privato hanno destituito di credibilità. Sono convinto che un maggiore credibilità (e competenza e autorevolezza) dei consulenti sia un fattore chiave per fare ripartire l'Italia. Da dove cominciamo? 

sabato 3 agosto 2013

La verità che ti afferra

Vi sono verità che asservono e verità che asseverano. Verità che deliberano e verità che liberano. Quest'ultima, delle quattro, è la più inafferrabile. Anche perché, per lo più, è lei che afferra te.

domenica 14 luglio 2013

Il ritorno dell’intuizione

Nel parlare comune spesso facciamo riferimento all’intuizione: “ho intuito che…”, “ho avuto un intuizione..” ecc.  Di fatto nella nostra cultura, e in special modo nella cultura organizzativa dominante, tendiamo a squalificare questa modalità di conoscenza. Tendiamo a pensare che sia “irrazionale”, tutta da verificare, magari addirittura infondata. Nessun direttore marketing approverebbe una campagna pubblicitaria sulla base di un’argomentazione del genere – anche se, va detto, e ho scelto l’esempio a bell’apposta, il creativo di turno di fatto va per intuizioni. E tuttavia questa modalità esiste, opera ed è efficace: chiedetelo a un tennista o a un danzatore, chiedete loro di spiegare come fanno a indovinare quel tal colpo o quel tal movimento. Oppure pensate agli artisti, ma anche ai coach: chiunque come me faccia coaching (ma ho fatto anche danza) sa perfettamente che a un certo punto “vede” la configurazione, “sente” la strada da seguire, intuisce la domanda giusta da fare. E ancora pensate ai grandi innovatori, ai grandi capitani d’impresa, ai grandi strateghi ecc. ecc. Il punto è che poi non abbiamo le “parole per dirlo” e tutto questo bel lavoro della nostra mente (della nostra mente-corpo come vedremo), si costringe suo malgrado a tornare là da dove è venuta, ovvero il mondo del poco chiaro, del confuso e dell’indistinto…
Ho ripreso a pensare a queste cose oggi, sentendo a una trasmissione di Radio 24 Massimo Cacciari che parlava del pensiero ortodosso, dicendo che ciò che in esso lo colpisce e lo affascina è il rapporto tra la parola e il silenzio, tra il visibile e l’invisibile: come cioè la parola e il visibile possono fare cenno e additare a ciò non si può dire e tace. E che tuttavia, come sanno ormai tutti, essendo l’essenziale, con una bella scivolata nel pop, “è invisibile agli occhi”, come diceva il Piccolo Principe. Ma la breve dichiarazione di Cacciari mi ha risvegliato un insieme di ricordi filosofici. Vado per sommi capi e mi scusi chi non ha cultura filosofica, ma da Platone in poi in filosofia si parla spesso di intuizione, e sempre con la connotazione di “conoscenza diretta”, sia essa sensibile o intellettuale (come diceva Kant) e propriamente non discorsiva. Di qui mi discendono due tipi di sequenze di pensiero.

Prima. La consulenza filosofica e il sapere filosofico hanno di mira proprio questo: il proprio oltre, se vogliamo (Oltre la filosofia è un bellissimo libro di Giangiorgio Pasqualotto, tra l’altro), cosa che Ran Lahav ha designato come “l’intero”, in un’ottica ancora troppo platonica, a mio avviso, e quindi in fondo mistica al modo antico e poi cristianeggiante.

Seconda. La conoscenza diretta  di cui sopra si è oggi rifugiata nell’estetica e nell’arte (che non sono affatto la stessa cosa), cosa che ci contorna con belle movenze una dimenticata voce dell’Enciclopedia Einaudi a firma del giovane Agamben che parlava del gusto come “sapere che non si sa”.  Ma più profondamente ancora oggi sappiamo che l’intuizione (e con essa il gusto) ha le sue basi nell’empatia che, secondo la configurazione che esce dalla sua riconsiderazione a partire dalle neuroscienze  e dalla scoperta dei neuroni specchio, ha fondamento nella motricità (ricordate il tennista e il danzatore?), e al riguardo mi permetto di rimandare a IES – Intelligenza empatico sociale di Franco Angeli (la parte scritta da me). E qui va detto che si tratta di percorsi mentali precognitivi (che non è una contraddizione in termini, come molti penseranno, sbeffeggiando con ciò implicitamente non solo i filosofi già citati, per non parlare di tutti gli scienziati che non ho nominato, tra i cui vorrei qui di passata ricordare Maturana e Varela e il loro concetto di “embodied cognition", ma pure per dirne solo alcuni Bergson e Husserl)  o per lo meno protocognitivi come sostiene Fabrizio Desideri nel suo La percezione riflessa (Cortina), che al riguardo pone argomenti a favore molto probanti in un continuo dialogo tra filosofia e neuroscienze. Insomma la si chiami intuizione, capacità estetica, gusto o empatia, siamo in presenza di una vera e propria facoltà della nostra mente. Che tuttavia non è riducibile alla discorsività e alla logica. E credo che in fondo a questo alludesse un pensatore molto poco platonico come Wittgestein quando ci parlava del mistico, che era per lui il luogo (forse sacro nel senso di Bateson, e qui rimando al suo postumo e scritto insieme a sua figlia  Là dove gli angeli esitano, Angels  fear in edizione originale con l’illuminante e ossimorico sottotitolo: Towards an Epistemology of the Sacred, verso un’epistemolgia del sacro) cui ci deve condurre il discorso logico, che secondo lui era una scala, che andava usata e poi buttata.

Concludendo, mi chiedo e vi chiedo: perché mai di tutto questo nelle organizzazioni non si fa nulla? Eppure sappiamo benissimo che funziona (vi ricordate i grandi capitani d’impresa di cui sopra? E i grandi strateghi?): tutti abbiamo studiato di come la molecola del benzene venne scoperta in sogno. Insomma la conoscenza (e con essa l’apprendimento) non è solo discorsiva, non è del tutto analizzabile, non è scotomizzabile integralmente a pezzetti secondo una logica lineare e fordista il cui emblema da me più aborrito è il modello di problem solving a lisca di pesce di Ishikawa, buono solo per le catene di montaggio.

Certo, si dirà, ma resta che poi, come si diceva prima, di tutto questo in fondo non ne sappiamo poi un gran che e quindi non possiamo darcene gran pensiero.  E allora come mai gran parte del pensiero organizzativo ci parla del valore della conoscenza tacita? E’ vero, forse, non sappiamo descriverla (se no sarebbe esplicita), per lo meno non completamente per il pensiero logico,  ma oggi, sapendo che stiamo parlando di una facoltà che ha a che vedere con l’arte, il gusto, il movimento e la famigerata intuizione da cui siamo partiti, sappiamo come farla crescere, attivare, incrementare. Anche se, per farlo, e qui sta la resistenza organizzativa, bisogna abbandonare il modello “comando e controllo”. Qui non si comanda e non si controlla: si favorisce, si attiva, si facilita. E le aziende vincenti di domani somiglieranno alle botteghe rinascimentali.

A proposito, sapete qual è il fondamento del mitico “intuito femminile”? La maggiore competenza relazionale ed empatica delle donne, che pare abbiano neuroni specchio più efficienti dei maschi. Del resto sono più brave anche coi colori e coi vestiti, coi trucchi (in ogni senso del termine) e con l’estetica, con il ricamo e con la danza… 

domenica 30 giugno 2013

La Dea e il cambiamento

"La Dea Universale, la Madre del Mondo, è, tra le grandi divinità tutelari conosciute dai miti di tutto il mondo, una delle più antiche e dotata del respiro più ampio. E' rappresentata ovunque in santuari (....); essa fu conosciuta dalle culture del Mediterraneo sotto vari nomi - Cibele, Iside, Ishtar, Astarte, Diana; era la Magna Mater."
Così dice Heinrich Zimmer, nel suo splendido Il re e il cadavere (Adelphi) richiamandosi a una serie di studi ed indagini tra cui primeggia a mio avviso quella di Robert Graves, La Dea Bianca (sempre Adelphi, è genere adatto all'editore). Ma al di là di qualsiasi ripescaggio più o meno erudito o neoromantico di antichi miti che furono, considerando che forse oggi il mito ha ancora qualcosa da dirci nella misura in cui si occupa di quelle questioni che James Joyce riteneva "gravi e serie", ovvero, preciso io, quelle a cui non c'è risposta al livello della decidibilità propria alla logica del terzo escluso e del principio di non contraddizione (che non sono la stessa cosa), credo che le parole più interessanti Zimmer le dica una pagina più avanti: "Sembra che il nocciolo del mito della Dea sia questo: a nessuno è permesso di rimanere a lungo quello che è".
E' proprio il caso di dirlo: sante parole.

Mito e sviluppo personale

“Ammiro molto lo psicologo Abraham Maslow; tuttavia, in uno dei suoi libri, ho trovato una specie di scheda di valori per i quali le persone vivono, definiti sulla base di una serie di esperimenti psicologici. Tali valori sono: sopravvivenza, sicurezza, relazioni personali, prestigio, sviluppo personale. Mi sentivo così strano, a leggerla, senza capirne la ragione… finché non ho capito che questi sono esattamente i valori che la Mitologia trascende.
La sopravvivenza, le relazioni personali, il prestigio, lo sviluppo personale, nella mia esperienza, sono esattamente i valori per cui una persona ispirata dal proprio Mito non vive. Essi hanno a che fare con gli aspetti biologici compresi dalla coscienza. La Mitologia inizia là dove parte la follia. Una persona davvero dedicata ad una chiamata, ad una missione, ad un credo, sacrificherà la propria sicurezza, persino la vita, le relazioni personali, il prestigio, non penserà neanche al proprio sviluppo personale; si abbandonerà completamente al proprio Mito.
I cinque valori di Maslow sono i valori per cui vive chi non ha nulla per cui vivere."

Sono parole di Joseph Campbell, il celebre autore di "Le Maschere di Dio" (The Masks of God, 1959-1968) di cui consiglio vivamente la lettura a chiunque sia interessato a capire quali sono le cose che noi esseri umani abbiamo tutti in comune (è tradotto in Italia da Mondadori). Di mio solo una piccola aggiunta: Campbell non rileva, per lo meno qui (non riesco a ritrovare la fonte, credo sia L'eroe dai mille volti)  che  ciò che limita il pensiero di Maslow è l'approccio individualista. Il mito ci collega a ciò che non siamo (e dunque siamo), a ciò che lui chiama follia e che per me altro non è che la partecipazione che ci lega gli uni agli altri (il che ha in effetti a che fare con la follia: come diceva Mallarmè "Io è un altro", che sia detto con ironica umiltà, fu il titolo della mia tesi di laurea). Inoltre, a completamento, invito a chiedersi cosa c'entri con tutto questo questa massima di Martin L. King, che riprende a sua volta una lunga tradizione sapienziale, etica, civile, politica e filosofica: "Se un uomo non scopre ciò per cui può morire, non sa vivere".