Su linkedin sono intervenuto a un dibattito su cosa fare per il nostro paese, o forse con il nostro paese. Alcuni proponevano questo, altri quello. E mi è venuto di dire quest'altro:
E' molto bello orientarsi alle soluzioni e al design driven, non sto ironizzando. Tuttavia è anche fondamentale chiarire i vincoli. In Italia il giro d'affari della malavita organizzata vale, secondo ampio consensus, tra il 10 e il 12% del PIL, con margini del 100%. Credo che questo sia un vincolo. Come scardinarlo? Mi spiego meglio, perchè non vorrei suscitare storming valoriali e futili: è una quota molto maggiore di altri paesi, i cinesi per esempio sono molto più bravi a gestire il problema, che pesa molto meno sul loro PIL, e genera, da noi, una liquidità proporzionalmente impressionante - e di questi tempi con capacità di influenzamento sempre maggiore: nessuno ha soldi e quindi articolo quinto (chi ha in mano i soldi ha vinto!). Con questa forza (il 5% del PIL in cash) si può fare quasi ogni cosa, tra cui gestire il parlamento e l'esecutivo. Questo è il motivo per cui chiunque acceda a ruoli di potere si omologa a un sistema di connivenze che ha come risultato quello che sappiamo - dalle banche in Romania agli accordi con Putin, e non è una questione di parrocchie. Se vale un criterio olografico, ho fatto l'amministratore locale e vi assicuro che non si muove foglia che a dar giusto riscontro non voglia e che ad andare con lo zoppo si impara a zoppicare... e se non impari ricevi (da noi e oggi elegantemente) proposte che non si possono rifiutare. La casta non si è formata per caso. Se qualcuno sa come fare per riconfigurare questo shape.... lo dica. Io non lo so.
Per chi lo desidera e accede a linkedin, può seguire il dibattito qui.
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venerdì 9 novembre 2012
lunedì 15 ottobre 2012
Sono le idee che fanno il mondo
“Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia
quando sono giuste che quando sono sbagliate, sono più potenti di quanto si
creda. In verità sono loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si
credono esenti da ogni influenza intellettuale, sono di solito schiavi di
qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell’aria,
distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…”
Sono parole di John Maynard Keynes, citate da Fabrizio
Galimberti sul Sole24ore di domenica 14 Ottobre 2012 (a pag. 14 in “L’austerità
e la rivincita di Keynes”), da lui riportate a sostegno di una critica
all’austerità oggi vigente in quanto avrebbe trascurato il rischio di
ponderazione previsionale dei moltiplicatori fiscali. A me invece hanno colpito per un altro
motivo. O forse due. In primo luogo perché sono vere, e questo parere
autorevole – per di più proveniente dalla parte degli economisti “in azione” -
conforta oltre ogni immaginazione il mio cuore di philosophical practionner (non
trovo traduzione adeguata), ma soprattutto conforta la mia sicurezza di poter
sostenere altrettanto quando, per esempio, mi ritrovo a constatare che gran
parte del mondo è ancora intriso di liberismo individualista, di radice in
fondo benthamiana, per cui moltissime persone sono convinte di potere e dovere
spiegare tutto a partire dalle scelte e dalle esigenze dell’individuo, di
solito come si sa “razionale”, quando invece mi pare oggi indispensabile vedere
ogni fenomeno a partire dal dato di fatto primitivo della gruppalità – insomma
basta con l’homo homini lupus: non ci sono lupi e siamo piuttosto simili ai
macachi, ci spulciamo l’un l’altro e cerchiamo insieme banane, che poi magari
ci sgraffigniamo a vicenda, va bene, ma siamo esseri sociali in primis, e
semmai dovrebbero spiegarci come è possibile che ci consideriamo individui.
Insomma, le parole di Keynes mi spronano a sostenere ancora e sempre la
“battaglia per la verità”. E qui passiamo al secondo motivo per cui la
citazione riportata da Galimberti mi ha colpito: ne consegue che dobbiamo avere
cura delle idee. Ovvero che la missione di chi si azzarda a pensare è alta, importante e rischiosa. Chi genera,
sostiene o critica idee, e mi viene da aggiungere non solo di filosofia
politica, ma anche morale e teoretica, come pure estetica, dato che queste cose
sono tutte tra loro collegate, ha la possibilità di influire sulla storia… orsù
pensatori, ancora uno sforzo e meno male che certe cose ogni tanto le dicono
perfino gli economisti.
domenica 16 settembre 2012
Sono eccezionale... vero?
"Era il conflitto più profondo, più tragico e universale di cui il paradosso della celebrità faceva parte. Il conflitto fra la centralità soggettiva delle nostre vite da una parte e, dall'altra, la nostra consapevolezza della sua oggettiva mancanza di significato. La collocazione di un genere di paura totalmente nuovo, della morte causata dalla demografia - il fatto che il terrore di rientrare nella media rientrava a sua volta completamente nella media".
Sono parole di D.F. Wallace in Oblio, nel racconto "Il canale del dolore" e quando le ho lette mi sono chiesto se anche per me è così. Ovvero se anche per me l'imperativo di distinguermi dalla massa è in fondo l'unica strada di salvezza in cui, sia pur passivamente, credo, oppure se ho altri sistemi, magari migliori, per scongiurare l'angoscia di morte e di non senso che logora e smangia ogni giorno di più i margini della mia vita. E mi sono risposto, ahimè, di no. Sono come tutti gli altri. Come te. Speriamo disperatamente di trovare un senso a questa vita in un'eccellenza riconosciuta dagli altri. Non in un'eccellenza tout court: è il riconoscimento che la rende tale, tant'è che uno può essere un perfetto idiota, ma se diventa famoso allora è salvo. Immortale. Fuori dal tritatutto dell'azzeramento del senso. Del resto lo diceva anche Musil, molto tempo fa, quando da qualche parte nell'Uomo senza Qualità parlava del fatto che nel nostro tempo di kitsch e mediocrità un cavallo da corsa può diventare un eroe. Ma la cosa che più è notevole nel sopracitato passaggio del profondissimo D.F Wallace - che forse si è impiccato proprio perchè non riusciva a risolvere la questione - è che proprio questo insano desiderio ci rende mediocri. Detto in altri termini - che a Wallace sarebbero piaciuti, perché logici (aveva studiato logica) - giacché vogliamo essere non mediocri, allora lo siamo. Ma esiste una via d'uscita a questo doppio legame?
Da un doppio legame (del genere io mento, la classe di tutte le classi che non comprendono se stesse e così via) si esce secondo Watzlawick molto semplicemente infischiandosene. Ed è già un'indicazione. Ma forse in questo caso ne possiamo dare un'altra: la fallacia delle premesse. Ovvero: siamo proprio sicuri che io mi devo distinguere dagli altri? Che io (che tu) in quanto separato e diverso, individuo signore e re del proprio spazio vitale, debba separarmi ancora di più, distinguermi ancora di più, essere ancora più diverso? Ma cosa c'è di male nell'essere... comuni? E poi guarda che strano: sono gli altri, la loro comunità, che decreta la mia eccellenza, che dunque altro non è che uno specchio delle loro aspettative, delle aspettative della massa...
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sabato 14 luglio 2012
Aziende senza manager
"Bossless", le aziende senza manager funzionano meglio. Flessibilità e collaborazione le carte vincenti.
Alla fine degli anni Sessanta Bill Gore è un ricercatore nei laboratori di Dupont: lascia il colosso della chimica e fonda la sua azienda, W.L. Gore. Inventa con altri due colleghi un materiale ultraresistente, il gore-tex. E fin dall'inizio propone l'idea di un' "impresa lattice", aperta e flessibile. Per lo sviluppo dei prodotti offre estrema libertà a piccoli gruppi autonomi. Adesso i 9mila dipendenti lavorano in edifici che non superano le duecento persone per evitare di perdere efficienza nella gestione dei feedback. Fatturato: tre miliardi di dollari. È una delle società con una cultura "bossless", senza capi, che hanno dimostrato la loro competitività sul mercato. Alcune esistono da decenni, ma negli ultimi tempi hanno ricevuto attenzione all'interno di ricerche sulla "open innovation", un'innovazione aperta dove trasparenza e adattabilità giocano un ruolo chiave… Il seguito dell’articolo, che parla anche di Morning Star e di Saic, lo trovate su Il sole 24 Ore, qui.
lunedì 28 maggio 2012
"Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza
Due articoli apparsi su Harvard Business Review di questo mese, entrambi a firma Ron Ashkenas, focalizzano molto bene il tema sempre più dibattuto dell'innovazione.
Il primo articolo, dal titolo molto esplicito "I Manager non vogliono davvero innovare", analizza le motivazioni reali per cui questo accade: Focalizzazione sul breve, Paura di cannibalizzare il business corrente, Orientamento a processi di lento miglioramento dell'esistente (per esempio Six Sigma).
Tutto questo porta, con un efficace battuta dell'autore, a far dire ai manager: "Io voglio che tu innovi, ma solo dopo aver fatto il tuo lavoro". Dunque fare innovazione profonda non fa parte del lavoro delle persone.
Una palese contraddizione con gli intenti iniziali.
Il secondo articolo, "E' tempo di ripensare il miglioramento continuo", analizza proprio la terza causa della resistenza al miglioramento. Six Sigma, Kaizen, Lean e loro variazioni possono essere pericolose per le capacità di innovazione dell'organizzazione... Per continuare la lettura si vada al post Ettardi: "Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza
martedì 22 maggio 2012
Verso una leadership filosofica
"Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della “tenuta” dell’idea di leader – a volte messa radicalmente in questione - nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Lungi dal provare a riassumere anche soltanto una parte della letteratura, mi limiterò nelle pagine che seguono a una sorta di brevissima scorribanda attraverso alcuni contributi essenziali e relativamente recenti sull’argomento, focalizzandomi su quanto mi pare più interessante per un contributo allo sviluppo e all’esercizio della leadership da parte delle pratiche filosofiche, di cui parlerò in seguito".... se vuoi leggere il seguito di questo articolo uscito su Persone&Conoscenze di questo Aprile clicca qui.
Morte e Vita
Non ha mai pensato di uccidersi?
Non è per morire che penso alla mia morte. E' per vivere.
André Malraux
Non è per morire che penso alla mia morte. E' per vivere.
André Malraux
mercoledì 9 maggio 2012
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