Un film bellissimo, epico, fuori dagli schemi dell’oggi. Un film d’altri tempi che ci parla d’altri tempi che si impongono come attuali. Un film che ci parla di libertà, che ci fa vivere le imprese eccessive di un gruppo di outsider devianti e senza un protagonista. O meglio, con un protagonista collettivo, perché, come in ogni bella fiaba che si rispetti, abbiamo un eroe, la nave del rock, the radio rock boat, e di contro un immarcescibile e tetro antagonista: l’ingessato governo britannico dell’anno di grazia 1966.
La nave sta fuori, è una radio pirata, e trasmette ore e ore di rock (siamo nella seconda metà dei sixties, ricordate?) con gran godimento del popolo inglese che balla, scopa (o brama di farlo), si ubriaca e gioisce al ritmo mai domo della nave pirata. Il successo è impressionante: più della metà dei sudditi della regina si da all’ebbrezza della musica nuova, si fa presaga di rivoluzioni a venire, trasuda spiriti animali che nessuno tra i lords dell’omonima camera aveva previsto. E’ uno scandalo, un’orrore che va falcidiato, un tripudio di sesso, libertà e trasgressione che va ridotto al silenzio.
Ma chi c’è sulla nostra bellissima nave? C’è un capo o meglio un capocomico tra il depresso l’umoristico e l’algido, peraltro gran leader che tira fuori le palle quando ci vuole. C’è un americano sovrappeso ed esuberante, capace di buttarsi da venti metri nelle gelide acque del Mare del Nord per sostenere una sfida morale. C’è la star dei deejay, amatissimo dalle donne, freddo, sensuale e cattivo come un serpente. C’è il sensibilone che s’innamora e si sposa una donna che ha come unico scopo di intrufolarsi nel letto della star serpentina suddetta. C’è la lesbica d’ordinanza, unica donna a bordo, in quanto non donna, deliziosa e adorabile, che assicura il rancio per tutti. E c’è infine il ragazzo, il giovine di studio, l’apprendista del mestiere e della vita che è stato mandato laggiù da una mamma che compare a metà della storia per rivelare al figliolo che il più ombroso, schivo e malridotto della compagnia è il suo dimenticato e misterioso papà.
Un bel casino, non c’è che dire. Ma è questo il bello. E mentre il nostro ragazzo, conosciuto il papà, si dedica a scoprire le gioie del sesso con la figlia del capo (da lui offertagli con squisito savoir faire aristocratico) la vicenda corre verso la sua tragica conclusione: il governo trova il modo di tagliare le gambe alla radio, gli eventi precipitano e complice una certa prevedibile trascuratezza nella gestione, il vecchio cargo sfiatato si accinge ad inabissarsi per sempre con tutti i suoi eroici, comici, patetici e spaventati guerrieri musicanti e deejay. Ma,colpo di scena, un orda di provvide imbarcazioni guidate da fan, ascoltatori, ragazze innamorate, sostenitori e civili di buoni principi li salva.
La morale l’avete capita, e mi viene da dire soltanto che è bello riscoprirla ogni tanto. La cosa più entusiasmante del film è la sua apparente sgangheratezza. In epoche così tristi va valorizzata: non sappiamo cosa ci porta il domani e nel frattempo è meglio provarci, contro ogni previsione. Per dirla con le parole di Steve Jobs (discorso di Stanford, cercatelo su Youtube): “siate folli, siate affamati”. E che vi guidi l’amore, anzi la passione, per quello che fate.
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domenica 27 dicembre 2009
sabato 26 dicembre 2009
Filosofare
"La filosofia produce ipotesi su questioni indecidibili."
Luciana Regina, Un fare che è pensare
Luciana Regina, Un fare che è pensare
Navigare nel pensiero
"La domanda è la nave del filosofo; la metafora è la sua bussola."
Shlomit C. Schuster, La pratica filosofica
Shlomit C. Schuster, La pratica filosofica
La verità
"La verità non è mai semplice. E' uno dei difetti di voi occidentali credere che sia possibile averla sempre a portata di mano. Non è così. La verità ha bisogno del suo tempo."
Henning Mankell, Il cinese
Henning Mankell, Il cinese
lunedì 21 dicembre 2009
L’Uomo che Pensa
(Ovvero: a che e a che pro pensare?)
Vi è chi ha parlato di “disincanto del mondo” ed è un dato di fatto che oggi sempre più ci troviamo di fronte a una “vacanza del senso”. Difatti non sappiamo più perché (e quindi come) agire, lavorare, riprodurci, amare, lottare, sacrificarci, insomma non sappiamo più cosa volere e nemmeno se vale la pena, anzi per cosa o per chi… vivere o morire. Storicamente parlando ciò avviene in conseguenza del fatto che le tradizionali agenzie culturali – le chiese e i raggruppamenti politici – sono diventate poco credibili. Ma al di là del costrutto intellettuale, dell’analisi e delle modellizzazioni, ognuno di noi vive il disagio del tempo e scopre a volte con sgomento che la “vacanza del senso”, per quanto condivisa con tanti altri (tutti…?), e quindi non semplicemente ascrivibile alla “psicologia”, è tuttavia un’esperienza che brucia e magari fa anche male, di certo inquieta e sprona alla ricerca di una soluzione.
Ma la “ricerca di una soluzione” scatena immediatamente efficientismi manageriali e velleità da problem solver che a volte è meglio scoraggiare. Non si tratta – in questo caso - di poca cosa. Non si tratta di una dissonanza cognitiva da ridurrre con l’uso più o meno retorico di slide, modelli o make up spirituali più o meno esotici e accattivanti… qui ne va della politica e della religione, anzi delle nostre vite e dei nostri rapporti con gli altri, nel privato e nel pubblico (sappiamo distinguerli… oggi?) o sul lavoro. E neppure la psicoterapia può servire: la via “individuale” non funziona, così come quella “collettiva”, perché è all’incrocio delle due che si situa il punto cieco…. Dunque che fare?
Pensare a quel che ci accade. Questo dobbiamo fare. E, per la prima volta nella storia, senza rete. Un po’ come accadde nell’Illuminismo, quando la gente si riuniva nei caffè, perché ciò che si pensava nei soliti luoghi non funzionava più. Oggi abbiamo bisogno di nuove idee e nuovi concetti, nuove immagini… e non funzionerà in questo caso l’outsourcing. Nulla e nessuno può oggi presentarsi alla porta di casa e dirci “sono la soluzione”, anzi, ciò sarebbe criterio certo per giudicarlo parte del problema. Per risolverlo, quindi, c’è un solo modo: cercare una strada, insieme ad altri perché la questione – questo è evidente - ci accomuna. Questo credo sia l’orizzonte “autentico” su cui traguardare nuovi fenomeni come il revival della filosofia, il propagarsi dell’interesse, quello serio, per il buddismo o il taoismo (che tra l’altro alla “vacanza del senso” dà una risposta secca e non occidentale: il senso non c’è, c’è solo il processo, l’acqua che scorre) e perfino i più o meno sinceri interessi delle aziende per i temi etici. Siamo all’alba di un nuovo paradigma di civiltà come sostiene il filosofo Pierre Levy quando parla di “intellligenza collettiva”? Penso proprio di sì… e d’accordo lui, ritengo che il pensiero sarà precisamente la posta in gioco.
Vi è chi ha parlato di “disincanto del mondo” ed è un dato di fatto che oggi sempre più ci troviamo di fronte a una “vacanza del senso”. Difatti non sappiamo più perché (e quindi come) agire, lavorare, riprodurci, amare, lottare, sacrificarci, insomma non sappiamo più cosa volere e nemmeno se vale la pena, anzi per cosa o per chi… vivere o morire. Storicamente parlando ciò avviene in conseguenza del fatto che le tradizionali agenzie culturali – le chiese e i raggruppamenti politici – sono diventate poco credibili. Ma al di là del costrutto intellettuale, dell’analisi e delle modellizzazioni, ognuno di noi vive il disagio del tempo e scopre a volte con sgomento che la “vacanza del senso”, per quanto condivisa con tanti altri (tutti…?), e quindi non semplicemente ascrivibile alla “psicologia”, è tuttavia un’esperienza che brucia e magari fa anche male, di certo inquieta e sprona alla ricerca di una soluzione.
Ma la “ricerca di una soluzione” scatena immediatamente efficientismi manageriali e velleità da problem solver che a volte è meglio scoraggiare. Non si tratta – in questo caso - di poca cosa. Non si tratta di una dissonanza cognitiva da ridurrre con l’uso più o meno retorico di slide, modelli o make up spirituali più o meno esotici e accattivanti… qui ne va della politica e della religione, anzi delle nostre vite e dei nostri rapporti con gli altri, nel privato e nel pubblico (sappiamo distinguerli… oggi?) o sul lavoro. E neppure la psicoterapia può servire: la via “individuale” non funziona, così come quella “collettiva”, perché è all’incrocio delle due che si situa il punto cieco…. Dunque che fare?
Pensare a quel che ci accade. Questo dobbiamo fare. E, per la prima volta nella storia, senza rete. Un po’ come accadde nell’Illuminismo, quando la gente si riuniva nei caffè, perché ciò che si pensava nei soliti luoghi non funzionava più. Oggi abbiamo bisogno di nuove idee e nuovi concetti, nuove immagini… e non funzionerà in questo caso l’outsourcing. Nulla e nessuno può oggi presentarsi alla porta di casa e dirci “sono la soluzione”, anzi, ciò sarebbe criterio certo per giudicarlo parte del problema. Per risolverlo, quindi, c’è un solo modo: cercare una strada, insieme ad altri perché la questione – questo è evidente - ci accomuna. Questo credo sia l’orizzonte “autentico” su cui traguardare nuovi fenomeni come il revival della filosofia, il propagarsi dell’interesse, quello serio, per il buddismo o il taoismo (che tra l’altro alla “vacanza del senso” dà una risposta secca e non occidentale: il senso non c’è, c’è solo il processo, l’acqua che scorre) e perfino i più o meno sinceri interessi delle aziende per i temi etici. Siamo all’alba di un nuovo paradigma di civiltà come sostiene il filosofo Pierre Levy quando parla di “intellligenza collettiva”? Penso proprio di sì… e d’accordo lui, ritengo che il pensiero sarà precisamente la posta in gioco.
domenica 13 dicembre 2009
Vita Nova
All’inizio della Vita Nova, Dante “rubrica” – usa questa parola – quanto poi scriverà in quell’opera sotto l’etichetta, o dizione, “incipit vita nova”. Con questo intendo dire che si tratta, e si tratta sempre, di un inizio, di un cominciamento, di una creazione e di una ricreazione. E anche di un ricordare, di un riprendere in mano, di un ridescrivere quanto già occorso. Infine, così come accade nella Vita Nova, si tratta anche sempre di un incontro – con Beatrice, nel caso di Dante. Con questo intendo sottoscrivere quanto sostiene Slavoj Žižek in Leggere Lacan, ovvero che per il pensiero ebraico-cristiano la verità viene fondata, nasce, insieme al mondo e al soggetto, dall’incontro traumatico con qualcosa che viene da fuori, dall’esterno (il desiderio dell’Altro, secondo lui). E’ un poco la stessa cosa che ci mostra Marquez in Cent’anni di solitudine, coi suoi zingari o gitani che siano che vanno in giro a diffondere invenzioni. Insomma, ciò che tu sei, pensi, desideri trova nell’altro (nell’Altro) la sua origine, la sua spiegazione e forse la sua motivazione, così come il suo scopo. Interessante a questo proposito è la distinzione fatta, nello stesso passo, sempre da Žižek , che riprende Kierkegaard, dicendo che la scelta cui siamo chiamati ha il suo paradigma nella polarità Socrate/Cristo, poiché per il paganesimo (e i Greci, pertanto), la verità giace e si trova e ritrova, invece, in una risalita verso un’origine coerente con noi, che sta in noi (è la rammemorazione Platonica, per esempio), e quindi senza il rapporto traumatico ed eterologico con l'altro. Io, per la verità, non sono sicuro che si debba scegliere, in questi termini per lo meno, tra Socrate e Cristo. Credo piuttosto che, da una parte, il pensiero ebraico/cristiano, con la sua idea dell’incontro con l’altro, sia un’eredità ineludibile, e che però, dall’altra, la filosofia, ovvero Socrate e con lui il paganesimo e gran parte della nostra tradizione di pensiero, ci aiutino ad evitare di consegnarci inermi nelle mani dell’Altro, sia esso un Dio, un Ideale o una nostra Immagine Amatissima. Come dire: che siamo desideranti è vero, ma che non sia un destino.
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venerdì 11 dicembre 2009
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 2
Come si diceva in precedenti post (che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 2 è:
Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.
Comunità significa, a mio parere e un po' a un dipresso, che siamo tutti uniti da uno scopo comune, e che quindi siamo pronti a mettere in gioco tutti noi stessi e tutta la nostra passione. Cittadinanza significa, sempre a mio parere, sentirsi a un tempo appartenenti, responsabili e in qualche misura rappresentanti della comunità. Insomma, per essere icastici, si tratta di avere con la propria organizzazione lo stesso tipo di rapporto che si ha con il gruppo di amici con cui andiamo in bicicletta, o a fare free climbing o a organizzare mercatini temporanei di vestitini usati. Come è possibile realizzare tutto questo in un’organizzazione? La cosa non è così difficile come sembra. Il primo passo da fare consiste nell’accettare l’idea, ovvero, nel fare proprio l’assioma per cui se non c’è passione o impegno…. non va bene. Mi spiego con un esempio. C’è un’azienda americana, Gore & Associates, dove le persone, tutti, lavorano solo su quello che vogliono, per il tempo che vogliono e nel modo che vogliono. Non ci sono capi formali, non ci sono ordini, non ci sono obblighi, e ciascuno lavora solo su ciò che si è impegnato volontariamente di fare. Pazzi? Bè, sono quelli che hanno inventato il Gore-tex…. E allora perchè lavorano? Perchè ci danno dentro? Semplice: per realizzare degli obiettivi in cui credono. Ovviamente anche tutto il resto della struttura e dei processi organizzativi sono coerenti con questa visione: per esempio le retribuzioni sono in gran parte variabili in funzione dei risultati ottenuti dai team. Ma non è normale? Perchè non dovremmo essere premiati o danneggiati in funzione di quanto siamo o non siamo stati capaci di arrivare a target? Non è così nella vita?
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.
Comunità significa, a mio parere e un po' a un dipresso, che siamo tutti uniti da uno scopo comune, e che quindi siamo pronti a mettere in gioco tutti noi stessi e tutta la nostra passione. Cittadinanza significa, sempre a mio parere, sentirsi a un tempo appartenenti, responsabili e in qualche misura rappresentanti della comunità. Insomma, per essere icastici, si tratta di avere con la propria organizzazione lo stesso tipo di rapporto che si ha con il gruppo di amici con cui andiamo in bicicletta, o a fare free climbing o a organizzare mercatini temporanei di vestitini usati. Come è possibile realizzare tutto questo in un’organizzazione? La cosa non è così difficile come sembra. Il primo passo da fare consiste nell’accettare l’idea, ovvero, nel fare proprio l’assioma per cui se non c’è passione o impegno…. non va bene. Mi spiego con un esempio. C’è un’azienda americana, Gore & Associates, dove le persone, tutti, lavorano solo su quello che vogliono, per il tempo che vogliono e nel modo che vogliono. Non ci sono capi formali, non ci sono ordini, non ci sono obblighi, e ciascuno lavora solo su ciò che si è impegnato volontariamente di fare. Pazzi? Bè, sono quelli che hanno inventato il Gore-tex…. E allora perchè lavorano? Perchè ci danno dentro? Semplice: per realizzare degli obiettivi in cui credono. Ovviamente anche tutto il resto della struttura e dei processi organizzativi sono coerenti con questa visione: per esempio le retribuzioni sono in gran parte variabili in funzione dei risultati ottenuti dai team. Ma non è normale? Perchè non dovremmo essere premiati o danneggiati in funzione di quanto siamo o non siamo stati capaci di arrivare a target? Non è così nella vita?
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
mercoledì 2 dicembre 2009
Maschere rivelatrici
Tutto è mascherato, tutto è divino.
Problem solving
Se è vero che un problema ben posto ha in sè la propria risposta, allora i veri problemi non si risolvono, ma si dissolvono.
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