Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il
management di domani", la sfida per il management di domani
numero 10 è:
Destrutturare e disaggregare l'organizzazione.
Per diventare più capaci
di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole
e malleabili.
In un articolo dell’anno
scorso sulla Harvard Business Review, una delle riviste più autorevoli del mondo di management,
Gary Hamel dichiarava: “Primo,
licenziare tutti i manager”, e continuava dicendo che “il management è la meno
efficiente attività dell’attività meno efficiente della tua organizzazione”. Questo
perché più barocca è la gerarchia dell’azienda e maggiore è il rischio che
prenda decisioni disastrose, tant’è che “i manager più potenti sono quelli più
distanti dalla prima linea della realtà”. Insomma, come spesso ripete il
nostro autore, il management è una tecnologia vecchia, o meglio, secondo quanto
dice in Il futuro del management ha
solo di che reinventarsi secondo un modello web 2.0. Ma perché mai? Perché la
gerarchia è lenta, rigida, ripetitiva e per intercettare le opportunità
che appaiono e scompaiono a velocità sempre crescente nei mercati (ammesso che
si chiameranno ancora così), le organizzazioni devono trovare il modo di modificarsi
molto rapidamente e, senza essere appesantite da vincoli o preconcetti, abituarsi
a riconfigurare rapidamente al proprio interno e nel dialogo con l’ambiente in
cui vivono le procedure, i processi, le capacità, le infrastrutture e le
risorse. Ma quante organizzazioni sono capaci di farlo? In realtà molte di loro
mantengono confini rigidi tra un'unità e l'altra, persistono a strutturarsi per
«silos» funzionali e ad accettare che si creino al proprio interno veri e
propri “feudi” che esaltando i vantaggi delle rendite di posizione ostacolano
il rapido riallineamento delle diverse attività e funzioni indispensabile a un orientamento
alla creazione continua di valore. Per non parlare dell’effetto “pensiero unico”
che ammorba spesso quelle grandi realtà organizzative che comprendono migliaia
di dipendenti, dove si produce un insalubre orientamento alla svalutazione di
quella grande ricchezza, almeno secondo quanto possiamo imparare dalla biologia
evoluzionista, che risiede nella divergenza e nella differenziazione. E allora
che fare? Secondo Hamel, per sviluppare una maggiore capacità di adattamento,
le aziende devono organizzarsi in unità più piccole e creare in questo modo strutture
più fluide, basate su aggregazioni guidate dai progetti. Una sorta di azienda organizzata a
piatto di spaghetti, come suggerivano Jonas
Ridderstrale e Kjell
Nordström nel loro divertente, veggente e ispirato Funky business? Forse si, ma quel che é
certo è che Hamel ha dalla sua gli esempi: Semco, Gore & Associates e tante
altre aziende, più o meno partecipative nel modello di management, che
rifuggono dalle sedi elefantiache le quali, va detto, quando le guardiamo,
magari da lontano, fanno a noi tutti un effetto un po’ inquietante, con un che
di faraonico e imperiale. Certo, tutto questo contraddice numerosi assiomi
sulle economie di scopo e di scala ma… viviamo
in tempi interessanti, come dice un altro grande eretico, ma molto più
estremista, del nostro decadente pensiero occidentale, Slavoj Zizek.
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo”
in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
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