"Non c'era fretta, ma l'idea di fare qualcosa per una persona morta lo rincuorava". Sono parole scritte da Qiu Xiaolong in Quando il rosso é il nero, libro che vi consiglio insieme a tutti gli altri dello stesso scrittore, un cinese in U.S.A dall'89 che ambienta le sue detective story a Shangay, nella Cina degli anni di Deng Xiaoping. Si tratta di un modo accattivante per farci conoscere dall'interno una realtà che non ci é nota e forse un modo intrigante per conoscere il mondo in genere: la detective story, infatti, è oggi il genere di letteratura di maggior successo. Ma perché? Appunto... vediamo. Intanto è una ricerca e, come dice Xiaodong stesso in uno dei suoi retri di copertina, permette di bussare a molte porte diverse. E' dunque, e inoltre, una quest, o forse un Odissea (ma dove mai ci fa tornare?). Inoltre come molti hanno detto già prima di me, la tensione è verso la colmazione di una mancanza, la ricostituzione di un equilibrio lacerato dal delitto. Tuttavia c'è qualcosa ancora di impensato, credo, nel successo clamoroso del "giallo" come modo per avventurarsi nel mondo. E non credo sia solo questione di ripristinare un equilibrio, secondo una visione molto ingenieristica ed omeostatica del da farsi di derivazione molto occidentale. Certamente la morte, il morto giocano un ruolo essenziale nel fascino del "giallo", ma ci voleva forse proprio un cinese, un "altro", uno straniero, per rivelarci quel che forse non vediamo: fare qualcosa per i morti, forse è proprio questo il punto. Il "giallo" é forse, in fondo, quella preghiera che non sappiamo più fare. Non dunque un equilibrio da ridare ai vivi, ma una pace da donare ai morti. Si, ci voleva davvero un cinese per ricordarci che i morti non sono solo morti. Infatti sono stati vivi.
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lunedì 16 maggio 2011
martedì 19 aprile 2011
Vitali malati di Parkinson
Sono stato a un convegno di malati di parkinson e ne ho ricavato una grande energia (ringrazio Lucilla Bossi - su di lei questo link che mi piace - presidente di Parkinson Italia, donna energica, notevole e un poco estrema, nel senso migliore del termine, ce ne fossero così, per avermi invitato e, a modo suo, nei preparativi, un po' scrollato). Cosa ne ho ricavato? Erano tutti lì, in attesa, come avviene nelle aule migliori: e quando sono tutti lì e ti chiedono qualcosa e pensano che tu glielo puoi dare, qualsiasi cosa sia, e ne hanno, e tu lo sai, buon diritto, e tu ne sei responsabile, tant'è vero che hai accettato di essere lì... bè non ti puoi esimere. E se hai qualcosa da dare lo dai. E se non ce l'hai... ti devi pentire. Ora, la cosa bella è che di solito, anche se non sai mai come va a finire, a me capita, grazie a Dio, o a che altro di simile, di riuscire a dare qualcosa. Come lo so? Bè... in genere dagli sguardi durante e dopo, e dalla quantità inaspettata di gente che viene a cercarmi dopo e a importunarmi (pensano) senza sapere (forse) quanto mi faccia piacere e quanto sia io, invece, a ringraziare, in cuor mio, loro. Un ulteriore ringraziamento a Carlo Gargiulo, che ha moderato e che, nonostante sia uomo televisivo, è riuscito con estrema eleganza a toccare e contenere un affondo sul dolore e la morte che andava gestito: lui mi ha aiutato in questo, con una saggezza e un equilibrio che mi hanno sorpreso e un savoir faire che gli invidio.
domenica 10 aprile 2011
Socrate, diglielo a Berlusconi
Non ho mai manifestato qui idee politiche di schieramento schierato, ma forse chissà, dati i recenti avvenimenti (digitate su Google il mio nome insieme alla parola "Buccinasco") ora mi sento più libero. Non farò mai polemiche di bassa lega, e tuttavia mi viene da dedicare o meglio destinare questo post a Berlusconi. Non solo per metterlo in croce, anzi, soprattutto direi, come controparte: mi piacerebbe sapere cosa potrebbe rispondermi. Seriamente. Fate conto che si parli a lui:
"Caro amico, tu sei Ateniese, cittadino della più grande e rinomata, per la sua scienza e la sua potenza, tra tutte le città, eppure non arrossisci nel riservare le tue cure alle tue ricchezze, per continuare ad accrescerle il più possibile, insieme alla tua reputazione e agli onori; e invece della tua ragione, della verità e della tua anima, che dovremmo di continuo migliorare, tu non ti curi e neppure ti dai pensiero."
Lo dice Socrate, nell'Apologia (che ricordo al mio destinatario è uno scritto di Platone, per cui Socrate è di fatto un suo personaggio), e lo dice quando sta per essere condannato a morte, rievocando la vita che ha fatto e ciò in cui crede. Faceva così, ovvero faceva il tafano, punzecchiava e ricordava a tutti quella cosa lì. Ora sollevando Berlusconi dall'appello, lo faccio a te: ci pensi? O dedichi tutto il tuo tempo e le tue energie a quelle cose là? E scusa la brutalità, ma lo sai che, come dicevano i nostri nonni, le tombe non hanno tasche?
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Casa nostra
In una vecchia intervista Wim Wenders diceva che noi umani siamo in perenne conflitto, o dialettica o oscillazione, tra at home e on the road. Quando sei in uno di questi due modi, diceva, allora vuoi l'altro. Kant invece parlava del cielo stellato sopra di me. Io mi ricordo, per parte mia, di un viaggio lisergico molto simile a questo. Ero con Dario, lo saluto. E questa, amici, tutti e chiunque tu sia, è casa nostra.
mercoledì 30 marzo 2011
Vita e morte
"Se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere".
Lo diceva M.L. King, e io aggiungo: se vuoi sapere per cosa vale la pena di vivere, chiediti per cosa potresti, e vorresti, morire. E' un modo pratico e semplice per risolvere il solito grande problema del senso della vita. Provare per credere: scrivilo... e vedrai.
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martedì 29 marzo 2011
La trappola
"Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma. e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo!"
Luigi Pirandello, La trappola
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lunedì 28 marzo 2011
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 6
Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 6 è:
Reinventare gli strumenti di controllo. Per superare il trade-off tra disciplina e libertà, i sistemi di controllo devono incoraggiare il controllo dall'interno anzichè i vincoli imposti dall'esterno.
Bello eh? Ma abbiamo chiaro cosa significa? Qui il nostro autore (ricordiamo che si tratta di Gary Hamel) a mio avviso scivola, o meglio confonde (a meno che non sia colpa del traduttore, ma ne dubito) un po': quando parla di esterno, intende, in realtà, dire "esterno a me", e quando parla di interno, intende qualcosa di simile a "comunità", ovvero qualcosa in cui mi riconosco. Mi spiego con un esempio: in una certa azienda di cui non ricordo più il nome, il problema relativo a una buona gestione delle spese di trasferta è stato risolto pubblicando nell'intranet aziendale le spese di ciascun manager, in ogni dettaglio.... Questa "pubblicità", termine da considerare in senso stretto, vale a dire come "essere in pubblico", tende a scoraggiare con facilità comportamenti pirateschi e appropriativi quali scolarsi a cena una bottiglia di Chateau Margot del '67 alla modica cifra di 300 euro. O meglio, rende tali comportamenti soggetti alla critica, alla valutazione, all'attenzione da parte della comunità (comunque la si limiti o filtri) - chissà, forse a volte è giusto ordinare a spese della comunità una bottiglia del genere, magari quando si ha per ospite una persona di riguardo che potrebbe generare per la comunità vantaggi ben maggiori della spesa. Insomma, è un po' come quando sai che ti osservano e di conseguenza di viene meno facile buttare la carta per terra. Ora, il punto interessante, secondo me, è che questo modo di procedere comporta una forte coerenza con i valori e la mission e "costringe" le persone a "comportarsi bene" non perchè verrebbero sanzionate o giudicate male, ma perchè gli altri li considererebbero poco "ok", in quanto "traditori" del bene comune. Già... il bene comune. Grande concetto, poco praticato. E se pure tralascio, ora, di esplorare difficoltà e paradossi relativi alla definizione del limite di questo "comune" (ovvero il problema di decidere fin dove si estende... perchè sotto certi aspetti siamo tutti e sempre stakeholders) mi chiedo e vi chiedo: non è forse questo il vero e unico motivo a partire dal quale si possono allineare - come già secoli fa auspicava Blanchard - obiettivi personali e organizzativi? E per converso, chiedo ancora: dove si va a finire se ci si dimentica del bene comune in un'organizzazione in cui le persone, in ultima analisi, sono libere di decidere se lavorare bene o no? E visto che che credo di sapere quale risposta avete dato alle domande di prima, chiedo infine: come mai di queste elementari verità se ne infischiano quasi tutti?
Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
venerdì 11 marzo 2011
Vita, morte e identità
"Per vivere devi far morire te stesso. Ecco perchè tante persone si arrendono."
Paul Auster, Nel paese delle ultime cose
L'aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell'edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo - e il libro - è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: "La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata".... insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l'identità del rimpiazzato. Un po' come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v'è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l'aforisma da cui sono partito inizialmente:
"Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare".
(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo... forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)
Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell'identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato...)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L'incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l'assenza di speranza?
Paul Auster, Nel paese delle ultime cose
L'aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell'edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo - e il libro - è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: "La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata".... insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l'identità del rimpiazzato. Un po' come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v'è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l'aforisma da cui sono partito inizialmente:
"Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare".
(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo... forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)
Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell'identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato...)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L'incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l'assenza di speranza?
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