Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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martedì 22 maggio 2012

Verso una leadership filosofica

"Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della “tenuta” dell’idea di leader – a volte messa radicalmente in questione - nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Lungi dal provare a riassumere anche soltanto una parte della letteratura, mi limiterò nelle pagine che seguono a una sorta di brevissima scorribanda attraverso alcuni contributi essenziali e relativamente recenti sull’argomento, focalizzandomi su quanto mi pare più interessante per un contributo allo sviluppo e all’esercizio della leadership da parte delle pratiche filosofiche, di cui parlerò in seguito".... se vuoi leggere il seguito di questo articolo uscito su Persone&Conoscenze di questo Aprile clicca qui.

Morte e Vita

Non ha mai pensato di uccidersi?
Non è per morire che penso alla mia morte. E' per vivere.

André Malraux

domenica 6 maggio 2012

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 10


Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 10 è:

Destrutturare e disaggregare l'organizzazione.  Per diventare più capaci di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole e malleabili.

In un articolo dell’anno scorso sulla Harvard Business Review, una delle riviste più autorevoli del mondo di management, Gary Hamel dichiarava:  “Primo, licenziare tutti i manager”, e continuava dicendo che “il management è la meno efficiente attività dell’attività meno efficiente della tua organizzazione”. Questo perché più barocca è la gerarchia dell’azienda e maggiore è il rischio che prenda decisioni disastrose, tant’è che “i manager più potenti sono quelli più distanti dalla prima linea della realtà”. Insomma, come spesso ripete il nostro autore, il management è una tecnologia vecchia, o meglio, secondo quanto dice in Il futuro del management ha solo di che reinventarsi secondo un modello web 2.0. Ma perché mai? Perché la gerarchia è lenta, rigida, ripetitiva e per intercettare le opportunità che appaiono e scompaiono a velocità sempre crescente nei mercati (ammesso che si chiameranno ancora così), le organizzazioni devono trovare il modo di modificarsi molto rapidamente e, senza essere appesantite da vincoli o preconcetti, abituarsi a riconfigurare rapidamente al proprio interno e nel dialogo con l’ambiente in cui vivono le procedure, i processi, le capacità, le infrastrutture e le risorse. Ma quante organizzazioni sono capaci di farlo? In realtà molte di loro mantengono confini rigidi tra un'unità e l'altra, persistono a strutturarsi per «silos» funzionali e ad accettare che si creino al proprio interno veri e propri “feudi” che esaltando i vantaggi delle rendite di posizione ostacolano il rapido riallineamento delle diverse attività e funzioni indispensabile a un orientamento alla creazione continua di valore. Per non parlare dell’effetto “pensiero unico” che ammorba spesso quelle grandi realtà organizzative che comprendono migliaia di dipendenti, dove si produce un insalubre orientamento alla svalutazione di quella grande ricchezza, almeno secondo quanto possiamo imparare dalla biologia evoluzionista, che risiede nella divergenza e nella differenziazione. E allora che fare? Secondo Hamel, per sviluppare una maggiore capacità di adattamento, le aziende devono organizzarsi in unità più piccole e creare in questo modo strutture più fluide, basate su aggregazioni guidate dai   progetti. Una sorta di azienda organizzata a piatto di spaghetti, come suggerivano Jonas Ridderstrale e Kjell Nordström nel loro divertente, veggente e ispirato Funky business? Forse si, ma quel che é certo è che Hamel ha dalla sua gli esempi: Semco, Gore & Associates e tante altre aziende, più o meno partecipative nel modello di management, che rifuggono dalle sedi elefantiache le quali, va detto, quando le guardiamo, magari da lontano, fanno a noi tutti un effetto un po’ inquietante, con un che di faraonico e imperiale. Certo, tutto questo contraddice numerosi assiomi sulle economie di scopo e di scala ma…  viviamo in tempi interessanti, come dice un altro grande eretico, ma molto più estremista, del nostro decadente pensiero occidentale, Slavoj Zizek.

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

sabato 5 maggio 2012

Mindfulness è vacanza

Ho capito perché ci piace andare in vacanza. Serve a interrompere la routine. Bella scoperta, direte, ma così come va di moda oggi, ci attacco una bella dimostrazione basata sulle neuroscienze. Con rimando a Mindfulness di Daniel Siegel, sembra che le strutture abitudinarie che vanno, come dice lui, "dall'alto verso il basso", dove per alto s'intendono cognizioni e copioni emozionali stabiliti, ci impediscono di aprirci all'esperienza come tale, ovvero a sensazioni, cognizioni ed emozioni non predeterminate, non solite, non abitudinarie. Come dire: a forza di fare sempre le stesse cose diventiamo stupidi. E ci inaridiamo. E ci stanchiamo. La vacanza ci da nuove impressioni e così ci vivifica, ovvero produce nuovi sentieri neuronali, e questa sensazioni di emergente novità ci dà una nuova energia. Una volta si chiamava ricreazione. Ma mi domando: si deve per forza andare in vacanza? Una volta ho conosciuto un signore, credo in aula, che mi raccontava di fare percorsi diversi per andare al lavoro. Bene. Possiamo fare tutto in modo nuovo, anche mangiare l'uovo al tegamino che mangiamo di solito. Se ci concentriamo bene, scopriremo che non è mai lo stesso. I buddisti raccomandano di osservare come respiriamo. Provare per credere. Ci vogliono almeno dieci minuti, ma scoprirete che ogni respiro è diverso. E costruirete così nuovi sentieri neuronali, senza andare alle Maldive.

martedì 1 maggio 2012

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 9

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 9 è:

Reinventare il processo di formulazione della strategia come processo in divenire. In un mondo turbolento la formulazione delle strategie deve riflettere i principi biologici della varietà, della selezione e della conservazione.

Avete presente i piani quinquennali dell’Unione Sovietica? Non funzionavano, a differenza di quello che fanno oggi con grande abilità i cinesi, perché supponevano il completo controllo del processo. In un mondo turbolento come un tornado nel Golfo del Messico, la previsione è difficile, per non dire impossibile, e la pianificazione a lungo termine ha poco valore. Tutto accade come in Alice dietro lo Specchio, dove Lewis Carrol a un certo punto ci descrive una sorprendente partita di golf: le mazze sono fenicotteri e le palline porcospini arrotolati su se stessi. La peculiarità del gioco consiste nel fatto che i fenicotteri si muovono in mano ai giocatori, così come i porcospini, a loro volta, si srotolano e se ne vanno a zonzo per il prato. Ora, lungi dall’essere solo un divertissement, questa strana modalità di giocare a golf è stata pensata da Lewis Carrol, che era un logico, un matematico e un teorico dei sistemi di segni, per darci un’idea del mondo, e rappresenta benissimo il nostro. Sappiamo tutti, infatti, che oggi il mondo si muove, l’innovazione deflagra, la complessità cresce con curve esponenziali in ogni settore…. Insomma, il mondo prevedibile della meccanica è ormai tramontato ed è sorto un nuovo mondo che trova le sue metafore nei sistemi biologici e sociali, in sistemi caotici come l’atmosfera terrestre o addirittura nell’arte e nella creatività del gioco. Come dice John Kotter, forse il più osannato guru mondiale in materia di cambiamento organizzativo, nella nuova economia “è indispensabile saper inventare non solo nuove linee di prodotto, ma nuovi business e anche nuovi modelli economici e di organizzazione. Questo richiede una leadership che sappia mobilitare risorse intellettuali, fisiche e anche emozionali dentro l’azienda.”  E dunque se, per usare il titolo di un fortunato libro di Kotter, Il nostro iceberg si sta sciogliendo, che cos’ha fatto finora la comunità di pinguini che vi abita sopra per raccogliere la sfida e risolvere i problemi posti da nuovo ordine delle cose che si sta prospettando? Se la riposta è “pianificare”, allora proprio non ci siamo: non avete capito che avete a che fare con fenicotteri e porcospini! Oggi  i processi gestionali che cercano di pervenire alla «strategia migliore» attraverso metodi analitici di tipo top-down devono lasciare il posto a modelli basati sui principi biologici della varietà (generare numerose opzioni), della selezione (ricorrere a esperimenti a basso costo per sottoporre rapidamente a verifica le ipotesi cruciali) e ritenzione (riversare risorse nelle strategie che hanno maggiore presa nel mercato). Stop making strategy! In futuro, la dirigenza non formulerà la strategia, ma si impegnerà a creare le condizioni nelle quali le nuove strategie possano emergere ed evolvere. Insomma, per rimanere in tema di sistemi complessi, si occuperà dei vincoli, non del governo delle qualità emergenti. Ovvero, non di strategia, ma di metastrategia. 

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

venerdì 13 aprile 2012

Verità, bellezza, bontà

Ho letto questo libro di Howard Gardner, motivato dall’autorevolezza dell’autore, memore delle tesi di Formae mentis, un saggio sulla pluralità dell'intelligenza che mi ha trovato sostanzialmente d’accordo, e motivato pure, altresì, dalla coincidenza tra il titolo e i temi fondamentali della mia riflessione, e della riflessione filosofica nel suo insieme. Peraltro il sottotitolo del saggio: “educare alle virtù nel ventunesimo secolo” mi affascinava e speravo che il grande, davvero grande, intellettuale americano, uno di quelli capaci, come Noam Chomsky o George Steiner, di svariare tra le pieghe della cultura internazionale con uno sguardo d’insieme che spesso i solo europei non riescono ad applicare, ci desse qualche lume su questioni e problemi che interessano l’umanità più o meno da quando esiste. Ma sono rimasto deluso. Perché? Per due motivi. In primo luogo Gardner, attenendosi a uno stile analitico (da filosofia analitica, tipicamente anglosassone) rigoroso ma un po’ scabro e addirittura a volte noioso, non ci dà molto di più di quanto già sappiamo: la verità è fondamentale perché se mentiamo o pensiamo fesserie ci facciamo del male; la bontà è ciò che in fin dei conti, al di là delle diverse variazioni contestuali e culturali, tutti noi richiediamo agli altri e noi stessi, e su cui siamo in fondo abbastanza d’accordo quanto ai parametri fondamentali (non uccidere senza motivo, non fare i bastardi, mantenere gli impegni eccetera); la bellezza, il fascino della bellezza, ci interessa e ci motiva, anche se, ahimè, non siamo facilmente d’accordo su cosa sia bello oppure no. Tutto vero. Ma tutto qui? Ora, io penso che il vero interesse di mettere a tema questi concetti non stia tanto nella disanima separata del loro singolo status, ma nei collegamenti tra loro. E qui risiede il secondo motivo della mia delusione. Se infatti ha senso per noi preoccuparci di questi concetti o valori è perché ci dicono qualcosa di fondamentale su di noi, su ciò che veramente ci sta a cuore. E cosa ci interpella davvero al riguardo? Che la verità, la bellezza e la bontà in qualche modo si rispecchiano e si riverberano, ovvero sono, in fondo, per certi versi, la stessa cosa. Pensiamoci insieme. Una cosa vera non è forse anche un cosa buona? O meglio, come pensare che una menzogna o un errore siano una cosa buona? Le relazioni, spesso identitarie, tra etica e conoscenza sono un grande tema della riflessione filosofica, da Platone, anzi da Socrate, e forse da prima, in poi. Ed è pure vero che verità e giustizia (o bontà) a partire dall’età moderna sono state separate, e non solo per motivi surrettizi o storicamente determinati, perché è vero (vero) che una verità non è sempre buona (per esempio che hai una brutta malattia è vero, ma non è buono). Tuttavia resta il fatto che per ognuno di noi la verità è un parametro per decidere della bontà (o della giustizia) tant’è vero che nei tribunali si cerca di accertare la verità allo scopo di stabilire dove sta il bene e dove sta il male. Ma il vero grande assente in questo plesso problematico è il concetto di bellezza. Non voglio tirarla per le lunghe e ricorro a un aneddoto che cito spesso: dice Gregory Bateson (un altro grande intellettuale americano) che è molto facile capire qual è il capo di un branco di lupi. E’ il più bello. I greci dicevano kalos kai agathos, bello e buono. E Stendhal diceva che la bellezza è promessa di felicità. Come dire: la bellezza è armonia, e l’armonia è segno efficace di rapporti ben formati con l’ambiente, ovvero di giustizia e bontà, riconosciute come verità da chi vi è implicato. Ora, so perfettamente che procedere in modo acritico su questa strada ci riporta credere in Dio (che è vero, buono e bello) e sembra riproporre modelli propri di una società teocratica. Ma sta di fatto che qualcosa abbiamo perduto, e ne soffriamo. Ricomporre l’infranto (come diceva Benjamin)? Si, certo, perché l’infranto è l’inferno. Ma senza cedere alle lusinghe della totalitarietà. Perché se verità, bellezza e bontà alludono, nei loro diversi aspetti, a un Uno che le unisce e ne rende ragione, niente e nessuno sa a priori qual è. Non ci resta che costruirlo insieme.