Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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giovedì 29 dicembre 2011

Guerra originaria

Ho appena finito di leggere Bisogna difendere la società, uno dei corsi di fine anni Settanta al Collége de France di Foucault, che mi ha lasciato un'idea che credo importante. Sostiene, Foucault, che fino a circa il Seicento, la teoria e la filosofia politica si sono fondate su un'idea di sovranità che comportava un'armonia, un'omogeneità e una pacificazione che affondavano le proprie radici nella teoria platonica e aristotelica della polis, e prima ancora, mi viene da aggiungere, nel modello cosmologico del mondo di quaggiù, l'armonia celeste che propaga la sua immagine potente almeno fino a Kant, al suo cielo stellato, che stava sopra di lui a infondere cosmica armonia come e quanto altrettanto faceva la legge morale in lui. Il sovrano, il re, rende abitabile, prospero e armonico il popolo e il territorio: lo costituisce. Ma a partire dal Seicento - dalla sua fine - prende forma un altro paradigma: quello della guerra. All'origine della società non c'è il caos, poi normalizzato dal sovrano (e Hobbes con la sua astratta guerra di tutti contro tutti rientra secondo Foucault in questa tradizione), bensì la guerra tra due fazioni, una ferita, una differenza insanabile tra dominanti e dominati, tra invasori e invasi... idea che tra l'altro sta alla base di quel delirante e meraviglioso libro teso tra neolitico e quest del Graal, tra culti matrilineari e calendari celtici agresti che è La Dea Bianca di Robert Graves. Secondo quest'idea, quella presentata da Foucault, all'origine della storia, dunque, non c'è l'indifferenziato o il caos, ma una polarizzazione originaria tra noi e loro: un conflitto. Foucault non lo dice, ma è possibile a mio avviso ritrovare questa tradizione nella storia della filosofia europea premoderna. Penso per esempio a Eraclito o a Democrito, o a Vico o a Machiavelli, benché quest'ultimo Foucault escluda esplicitamente da un philum che secondo lui nasce nella storia europea soltanto alla fine del Seicento. Al di là di questo, tuttavia, credo che sia interessante l'alternativa: armonia o conflitto? All'origine cosa c'è? Perchè il punto chiave sta in questo: se c'è l'armonia allora bisogna tornarvi, ma se c'è il conflitto si può solo andare avanti, concluderlo, risolverlo. Ovvero progredire, e non è un caso che Foucault ponga questa idea del conflitto originario all'origine (non so se è solo un bisticcio di parole) della modernità. Inoltre c'è un'altra conseguenza importante: se il primum è il conflitto allora il pensiero strategico, lo schierarsi da una parte o dall'altra, è questione necessaria e forse insuperabile. Il che implicherebbe che qualsiasi elogio dell'armonia altro non sia che ideologia volta all'autocelebrazione dei vincitori o, il che in fondo è lo stesso, volta a imbrogliare o mantenere sottomessa la controparte, il partito dei vinti. E dunque: la verità è neutra, una, forse divina, o solo differente, molteplice e schierata? Ed è solo questa l'alternativa possibile?

domenica 4 dicembre 2011

Charlene Li

E' un cosidetto guru aziendale. A me piace. Dice delle cose interessanti su social network, mercati e sviluppo organizzativo: qui.

mercoledì 7 settembre 2011

Animali storici

Ryszard Kapuscinski (chiedo venia per le lettere slave storpiate) nel suo bellissimo Nel turbine della storia (Feltrinelli) dice a un certo punto del primo articolo della raccolta "che tre sono i principali pericoli che minacciano la memoria. Il primo è l'enorme sviluppo dei supporti di memoria", il secondo, continua Kapuscinski, è "l'eccesso di dati", il terzo "é la grande accelerazione dei processi storici" per cui "abbiamo perso il senso della stabilità e della familiarità col mondo".
Ciò che mi piace di questo grande giornalista è che pensa con la sua testa e si esprime senza giri di parole, in pratica ci dice: le cose sono sempre di più, le registrazioni pure e i supporti di memoria, ovvero le esternalizzazioni della nostra mente, sempre più potenti. Fine della memoria dunque? Ma non lo si è detto anche alla comparsa della scrittura? I somali trent'anni fa sapevano all'incirca 100 numeri di telefono e i popoli senza scrittura avevano una memoria prodigiosa... Credo che la questione non stia in questi termini. Credo che la memoria cambi nel tempo procedure, supporti, modalità di registrazione e quindi anche di gestione, modo di produzione e qualità. Insomma da un periodo storico all'altro di regola non è più la stessa e io per esempio, oggi, non mi ricordo più, a differenza di decenni fa, dati bruti, ma se mai indicatori e processi per trovarli o combinarli o produrli. Da sempre la tecnologia che, secondo Leroi Gourhan, esternalizza facoltà prima precipuamente umane (dalla mano alla zappa, dall'unghiata alla freccia, dal ricordo alla scrittura e al chip), ci sottrae la padronanza delle stesse per aprirci, in compenso, nuove possibilità e nuovi mondi. E bene fa Kapunscinski a ravvisare pericoli per la memoria, ovvero, per meglio dire, trasformazioni.
Ma non credo che l'esito sarà la distruzione della memoria, così come il cavallo e l'automobile non ci hanno privato dell'uso delle gambe, ma semmai aperto il varco allo sport e alla palestra. Piuttosto credo che la questione stia nella trasformazione in atto dei meccanismi di narrazione, di tramandamento e di tradizione, ovvero di storicizzazione. Che stanno cambiando profondamente. Come? Questa mi sembra una buona domanda.... Anche perchè la storia è a mio parere una dimensione propria, specifica e imprescindibile dell'umanità. Come dire: se siamo animali politici è anche perchè siamo animali storici. O no? Possiamo essere non storici?

giovedì 25 agosto 2011

Siamo tutti soggetti postraumatici

Il concetto di soggetto postraumatico e di matrice psicoanalitica ed è stato discusso e sviscerato da Zizek nel suo libro Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). Si tratta di un soggetto che in un certo qual senso non è più tale, ovvero è l’ombra, lo spettro, di se stesso. “In altre parole, quando abbiamo a che fare, diciamo, con un malato di Alzheimer, il punto non è solo che la sua consapevolezza è pesantemente limitata, che l’ambito dell’Io è ridotto, ma piuttosto che non abbiamo letteralmente più a che fare con lo stesso Io. Dopo il trauma emerge un altro soggetto, stiamo parlando a uno sconosciuto” (pag. 424). Ma chi è costui? Che gli è successo? Sappiamo di certo, come si dice, che “non è più lui”. Ma, secondo Zizek, in un modo molto particolare. Praticamente, semplificando, il trauma che rende così piatto e spettrale il soggetto postraumatico è una sorta di ripetizione della soggettivazione vera e propria, che avviene, secondo Lacan, precisamente attraverso la perdita di un’illusione, narcisistica, di essere uno con la Cosa (la Madre). Ma se quella prima tragica esperienza traumatica conduceva a una vita di lavoro e desiderio, perché attraverso la funzione paterna, ovvero la castrazione, il soggetto, per l’appunto veniva ad essere come ciò che restava ancora possibile dopo quella perdita, e solo così era lui, ovvero soggetto, con il trauma che produce il soggetto postraumatico, invece, avviene precisamente la perdita di quella condizione soggettiva così dolorosamente conquistata. Insomma si ripete la perdita, ma stavolta, si perde tutto. Un po’ come in certi racconti kafkiani, sto pensando a Davanti alla legge, in cui si patisce di una condizione dura e dolorosa, per scoprire poi alla fine che ci viene tolta anche quella. E in modo inappellabile. Esattamente come accade ai migranti quando vengono imprigionati o costretti in condizioni subumane. Insomma questa seconda perdita è ben più dura e definitiva, perché ci toglie la possibilità di lavorare, di darci da fare, di cercare una soluzione. Game over. Niente da fare. La porta si chiude. Fine della speranza.

Disperazione: questa è la condizione del soggetto postraumatico. I suoi archetipi, non a caso, sono il “muselmann” completamente inebetito del lager, il malato di Alzheimer, chi è stato colpito da una catastrofe insuperabile, sia essa fisica, mentale o simbolica e culturale, e si ritira nel nulla dello stordimento e dell’anestesia (penso per esempio all’alcolismo presso gli amerindi o gli aborigeni australiani).

Ma questo inebetimento, questa insensibilità, questa anestesia, non sono il nostro bagno di cultura quotidiana? Non siamo stati tutti rapinati e scippati di qualcosa di “nostro”, del senso della vita, del nostro vero io, di una speranza, di un afflato di autenticità che a malapena ricordiamo? E non ci rifugiamo noi tutti in pratiche ripetitive e istupidenti come guardare la televisione, fare cose trite e senza valore, ripetere come automi l’identico senza avere più nessuna voglia e nessuna speranza, se non quella vogliuzza per l’oggi e quella per il domani, una birra e un scopatina, l’ultimo film di pinco pallino (se vuoi far l’intellettuale), una corsetta in palestra o un flirt, quelle vogliuzze dicevo, che Nietzsche ha descritto come il placido e inconsapevole inferno dell’ultimo uomo?

E siccome l’ultimo uomo è l’ultimo baluardo contro l’avvento del superuomo… non varrebbe la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo? Come diceva Marx, parlando alla fin fine della stessa cosa (lui la chiamava comunismo), c’è un momento in cui non ce n’è più per nessuno e le chiacchiere non bastano più: hic Rhodus, hic salta!

E si può fare, perché in fondo non è vero che siamo soggetti postraumatici: ci turbano tanto, loro, i soggetti postraumatici, perché in realtà li mimiamo (o forse loro imitano noi…) e ci ricordano che a forza di recitare questa farsa… potremmo davvero diventare così!

mercoledì 24 agosto 2011

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 8

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 8 è:

Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.

In altri termini: democrazia. Non solo e non esclusivamente, certo. Diciamo allora… idiofilia? Amore e attenzione per ciò che è unico, strano, diverso? Questo è il compito. Perché la diversità è ricchezza, ulteriore possibilità, spazio di gioco e di manovra, brodo di coltura di nuove idee, soluzioni, procedure. Parlando da filosofo (che si è formato su Derrida, il cui testo forse più importante si intitola La differance, per cui figuratevi quanto sono d’accordo) la differenza è la vita, è l’origine di ogni cosa (lo direbbe anche Hegel). Ma scendiamo dai cieli dei filosofi. Che significa in pratica? E come si fa? Per quanto riguarda la prima domanda non mi viene in mente niente di meglio che rimandare al celebre discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, che si conclude tra l’altro con l’esortazione a essere folli (sic!). Per quanto riguarda la seconda, posto che siamo d’accordo con quanto detto sopra, il problema è trovare il modo di ridurre i costi di transazione, negoziazione e traduzione. Si, perché, se è vero che diversità, stranezze ed idiosincrasie sono una risorsa, la questione sta nel come accedervi in modo efficace ed efficiente a costi bassi, evitando nel contempo che la loro stessa esistenza e vitalità non comporti costi o problemi (in parole povere che la differenziazione non combini casini). Ora, come dice Gary Hamel nel suo già più volte citato Il futuro del management, noi esseri umani abbiamo già da tempo inventato sistemi per valorizzare le differenze senza fare troppa confusione. Sono sistemi complessi, capaci di grandi fluttuazioni interne e, insieme, efficaci autoregolazioni. Sono le grandi città, i movimenti religiosi, i mercati, le società democratiche. C’è poi la vita, ovvero gli organismi biologici e le popolazioni (di merluzzi, di gnu, per esempio), che è un’altra e forse ben più importante maestra di come fare un sacco di cose tollerando una complessità e una differenziazione interna stupefacente. Si, certo, si dirà, ma a parte il fatto che non sempre queste cose hanno successo, come fare per organizzare un’azienda in quel modo? Con quali vincoli, regole ecc.? Ora, se è vero che città, mercati e così via non sempre hanno successo… bè, non fatemi dir delle aziende – vi ricordate i fratelli Lehman? Quanto alla questione vera e propria, quella relativa all’organizzazione di un’organizzazione così “disorganizzata”, lo strumento c’è. E non è soltanto un mero strumento, ma un modello, un paradigma: si chiama web 2.0. Le organizzazioni sono dei sistemi sociali? Che si attrezzino da social network!

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

domenica 21 agosto 2011

La fidanzata automatica

Uno dei numi tutelari del pragmatismo, William James, ci narrò un bel giorno l'apologo della fidanzata automatica, che più o meno liberamente interpretato suona così: un uomo (tu) ha una fidanzata perfetta, di cui è innamoratissimo e che si comporta esattamente come per lui è il meglio possibile, compresa una piccola quota di dissenso e divergenza (insomma, rompe un po', come è giusto che sia). L'uomo é felice, solo che un bel giorno gli rivelano, inoppugnabilmente, ovvero svitandole un pezzo di cranio, che è un automa, perfettamente programmato per stare con lui. Ora, posto che un tale oggetto (se è un oggetto) non esiste, la domanda che vorrei fare è: qualora esistesse, l'uomo (tu... ovviamente la storiella si può simmetrizzare per le signore), continuerebbe a essere innamorato di lei o no? La risposta, io credo, è no. Ma quello che è interessante è il perchè. Andiamo per le spicce, senza tante elucubrazioni: quello che è cambiato è solo che adesso lui lo sa, ovvero sa che lei è un automa. Prima a lui la fidanzata (segretamente automatica) andava benissimo, anzi, era la donna della sua vita. Dunque cosa è cambiato? Che lui ora sa che lei non era come lui pensava che fosse, ma bensì lei è com'è, ora che sa com'è. Ma qual'è la differenza? Che è programmata. Ovvero non è libera. Ma che differenza fa? Perchè nella pratica non c'è nessuna differenza, l'unica vera differenza è che lui lo sa. E dunque? Cosa manca alla fidanzata automatica? Nulla, eppur qualcosa, un "non so che". Anzi precisamente un "non so che" inteso nel senso di un margine di alea e di rischio, vale a dire per l'appunto l'idea, anzi il fatto, che non sia tutto prefissato. Tralascio di inoltrarmi nella discussione su cosa sia la libertà, perché credo che sia più interessante restare su questo reperimento indiscutibile: se lui non lo avesse saputo... ma ora che lo sa... E ricordare che quel "non so che" che fa la differenza è un tema discusso sia in estetica (direi nel '700 soprattutto se non ricordo male) sia da Lacan, che lo collega all'oggetto /a/ ovvero a quel sovrappiù fatto di niente in cui si cela il segreto del nostro desiderio e, infine, da Jankelevic che ha scritto il bellissimo ll non so che e il quasi niente (appunto). Ora, cosa accomuna tutte queste visoni? Che hanno in comune queste diverse riflessioni sul "non so che" che, ricordo, rende una fidanzata vera migliore di una fidanzata automatica? Con l'idea di singolarità, di contingenza, di irripetibilità. E infatti, a ben pensarci, non vorrei la fidanzata automatica perchè se ne potrebbe fare... un'altra uguale.

Oppure, ipotesi estrema, forse potrei volere una fidanzata automatica, a condizione di non avere più nulla da aspettarmi da quelle vere. Che è in fondo la condizione di quello che chiamo il soggetto postraumatico (vedi i tag omonimi): la disperazione, il futuro azzerato, l'assenza di desiderio... se non mi aspetto più nulla, allora una fidanzata automatica è perfetta. Mi allevia il dolore. Come lo Xanax. Ma ecco che, forse, lei potrebbe rivelare, in modo sottile, un volto nascosto, perchè in fondo chi può essere certo che non possa esprimere una soggettività? A volte è nel più profondo degli abissi della disperazione che può nascere la speranza e là dove c'è il pericolo cresce ciò che salva (Holderlin citato spesso da Heidegger). Già, perchè forse ancora bene non sappiamo cosa sia un soggetto (James non poteva conoscerlo, ma se avesse letto tutto quello che ci ha detto Asimov sui robot... per non parlare di Philip Dick, o dell'Odradek di Kafka).

Tu sarai fuori di te

"Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che ti indicherò."

Sono parole di Dio. Ad Abramo. Che ovviamente le riceve in ebraico antico, dove "vattene" si scrive Lech lechà, che suddiviso così, Lech le-chà, può significare anche "vai verso te stesso". Come dire che per trovare te stesso devi andartene da te stesso. Uscire, andare fuori. Fuori da ciò che sei. Per questo follia e saggezza si toccano (extrema tanguntur).

Qui sta l'essenza della riflessività, che non è la ripetizione dell'identico, ma qualcosa in più, perché c'è la ripetizione.

sabato 20 agosto 2011

C'è un prezzo per tutto

"Costoro non conservano nella loro memoria il ricordo del passato, né se lo rammentano, ma lasciano che questo svanisca a poco a poco, in realtà rendendosi così, giorno dopo giorno, sempre più sguarniti e vuoti, quasi sospesi al giorno che deve ancora venire, come se gli eventi accaduti l'anno già passato, l'altro ieri o ieri non li riguardassero, e non fossero neppure a loro appartenuti". Sono parole di Plutarco (Peri euthumias), riportate da Foucault in L'ermeneutica del soggetto (lezione del 24 Marzo 1982), che così le chiosa: "Il che equivale a dire che costoro sono votati non solo alla discontinuità e al trascorrere, ma anche alla perdita di sè e al vuoto. Essi non sono realmente più nulla. Si trovano nel vuoto".
Ora, posto che si stanno decrivendo gli stulti, ovvero coloro che "si trovano esattamente nella posizione opposta a quella filosofica", e che tale descrizione va riferita al periodo ellenistico, ciò che mi ha colpito è che questa descrizione va benissimo per noi. Non facciamo esattamente così? Non è questo uno dei sintomi del (o il) male del nostro tempo? E trovo molto interessante che l'essenza della stultitia risieda nell'oblio... Ed è per questo che il soggetto che ha l'alzheimer, ovvero quello che io chiamo sulla scorta di Zizek il soggetto postraumatico, è oggi così importante per noi: è il nostro specchio, in fondo, quello che noi siamo. Senza storia, senza (vero) futuro. Insomma, rincoglioniti. Ma la domanda importante a questo punto è: cosa ci ha condotto qui? Qual'è il punto chiave? In un modo un po' fortuito e un po' pop, se vogliamo, ho trovato una risposta in un libro di un autore che ho già citato, Qiu Xialong, che s'intola Ratti Rossi. Siamo in Cina negli anni della transizione e si sta parlando del fatto che si pagano le celebrità per farsi fotografare con loro. Il protagonista conclude sconsolato: "C'è un prezzo per tutto". E il narratore commenta: "Ed era quello il problema. Si rendeva omaggio all'ideologia comunista solo a parole. Nonostante il Quotidiano del popolo e i documenti di Partito, la realtà sociale era che tutti, dal primo all'ultimo, pensavano a se stessi." Ci sarebbe ancora molto da dire, ma voglio tagliare corto con una domanda: dove si è e come si è quando la vita stessa di una persona (di tutte le persone, forse...) è diventata una merce?