Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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domenica 16 settembre 2012

Sono eccezionale... vero?

"Era il conflitto più profondo, più tragico e universale di cui il paradosso della celebrità faceva parte. Il conflitto fra la centralità soggettiva delle nostre vite da una parte e, dall'altra, la nostra consapevolezza della sua oggettiva mancanza di significato. La collocazione di un genere di paura totalmente nuovo, della morte causata dalla demografia - il fatto che il terrore di rientrare nella media rientrava a sua volta completamente nella media".

Sono parole di D.F. Wallace in Oblio, nel racconto "Il canale del dolore" e quando le ho lette mi sono chiesto se anche per me è così. Ovvero se anche per me l'imperativo di distinguermi dalla massa è in fondo l'unica strada di salvezza in cui, sia pur passivamente, credo, oppure se ho altri sistemi, magari migliori, per scongiurare l'angoscia di morte e di non senso che logora e smangia ogni giorno di più i margini della mia vita. E mi sono risposto, ahimè, di no. Sono come tutti gli altri. Come te. Speriamo disperatamente di trovare un senso a questa vita in un'eccellenza riconosciuta dagli altri. Non in un'eccellenza tout court: è il riconoscimento che la rende tale, tant'è che uno può essere un perfetto idiota, ma se diventa famoso allora è salvo. Immortale. Fuori dal tritatutto dell'azzeramento del senso. Del resto lo diceva anche Musil, molto tempo fa, quando da qualche parte nell'Uomo senza Qualità parlava del fatto che nel nostro tempo di kitsch e mediocrità un cavallo da corsa può diventare un eroe. Ma la cosa che più è notevole nel sopracitato passaggio del profondissimo D.F Wallace - che forse si è impiccato proprio perchè non riusciva a risolvere la questione - è che proprio questo insano desiderio ci rende mediocri. Detto in altri termini - che a Wallace sarebbero piaciuti, perché logici (aveva studiato logica) - giacché vogliamo essere non mediocri, allora lo siamo. Ma esiste una via d'uscita a questo doppio legame?

Da un doppio legame (del genere io mento, la classe di tutte le classi che non comprendono se stesse e così via) si esce secondo Watzlawick molto semplicemente infischiandosene. Ed è già un'indicazione. Ma forse in questo caso ne possiamo dare un'altra: la fallacia delle premesse. Ovvero: siamo proprio sicuri che io mi devo distinguere dagli altri? Che io (che tu) in quanto separato e diverso, individuo signore e re del proprio spazio vitale, debba separarmi ancora di più, distinguermi ancora di più, essere ancora più diverso? Ma cosa c'è di male nell'essere... comuni? E poi guarda che strano: sono gli altri, la loro comunità, che decreta la mia eccellenza, che dunque altro non è che uno specchio delle loro aspettative, delle aspettative della massa...


sabato 14 luglio 2012

Aziende senza manager

"Bossless", le aziende senza manager funzionano meglio. Flessibilità e collaborazione le carte vincenti.

Alla fine degli anni Sessanta Bill Gore è un ricercatore nei laboratori di Dupont: lascia il colosso della chimica e fonda la sua azienda, W.L. Gore. Inventa con altri due colleghi un materiale ultraresistente, il gore-tex. E fin dall'inizio propone l'idea di un' "impresa lattice", aperta e flessibile. Per lo sviluppo dei prodotti offre estrema libertà a piccoli gruppi autonomi. Adesso i 9mila dipendenti lavorano in edifici che non superano le duecento persone per evitare di perdere efficienza nella gestione dei feedback. Fatturato: tre miliardi di dollari. È una delle società con una cultura "bossless", senza capi, che hanno dimostrato la loro competitività sul mercato. Alcune esistono da decenni, ma negli ultimi tempi hanno ricevuto attenzione all'interno di ricerche sulla "open innovation", un'innovazione aperta dove trasparenza e adattabilità giocano un ruolo chiave… Il seguito dell’articolo, che parla anche di Morning Star e di Saic, lo trovate su Il sole 24 Ore, qui.

lunedì 28 maggio 2012

"Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza

Due articoli apparsi su Harvard Business Review di questo mese, entrambi a firma Ron Ashkenas, focalizzano molto bene il tema sempre più dibattuto dell'innovazione.

Il primo articolo, dal titolo molto esplicito "I Manager non vogliono davvero innovare", analizza le motivazioni reali per cui questo accade: Focalizzazione sul breve, Paura di cannibalizzare il business corrente, Orientamento a processi di lento miglioramento dell'esistente (per esempio Six Sigma).

Tutto questo porta, con un efficace battuta dell'autore, a far dire ai manager: "Io voglio che tu innovi, ma solo dopo aver fatto il tuo lavoro". Dunque fare innovazione profonda non fa parte del lavoro delle persone.

Una palese contraddizione con gli intenti iniziali.

Il secondo articolo, "E' tempo di ripensare il miglioramento continuo", analizza proprio la terza causa della resistenza al miglioramento. Six Sigma, Kaizen, Lean e loro variazioni possono essere pericolose per le capacità di innovazione dell'organizzazione... Per continuare la lettura si vada al post Ettardi: "Novazione" e "Innovazione", una questione di sostanza

martedì 22 maggio 2012

Verso una leadership filosofica

"Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della “tenuta” dell’idea di leader – a volte messa radicalmente in questione - nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Lungi dal provare a riassumere anche soltanto una parte della letteratura, mi limiterò nelle pagine che seguono a una sorta di brevissima scorribanda attraverso alcuni contributi essenziali e relativamente recenti sull’argomento, focalizzandomi su quanto mi pare più interessante per un contributo allo sviluppo e all’esercizio della leadership da parte delle pratiche filosofiche, di cui parlerò in seguito".... se vuoi leggere il seguito di questo articolo uscito su Persone&Conoscenze di questo Aprile clicca qui.

Morte e Vita

Non ha mai pensato di uccidersi?
Non è per morire che penso alla mia morte. E' per vivere.

André Malraux

domenica 6 maggio 2012

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 10


Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 10 è:

Destrutturare e disaggregare l'organizzazione.  Per diventare più capaci di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole e malleabili.

In un articolo dell’anno scorso sulla Harvard Business Review, una delle riviste più autorevoli del mondo di management, Gary Hamel dichiarava:  “Primo, licenziare tutti i manager”, e continuava dicendo che “il management è la meno efficiente attività dell’attività meno efficiente della tua organizzazione”. Questo perché più barocca è la gerarchia dell’azienda e maggiore è il rischio che prenda decisioni disastrose, tant’è che “i manager più potenti sono quelli più distanti dalla prima linea della realtà”. Insomma, come spesso ripete il nostro autore, il management è una tecnologia vecchia, o meglio, secondo quanto dice in Il futuro del management ha solo di che reinventarsi secondo un modello web 2.0. Ma perché mai? Perché la gerarchia è lenta, rigida, ripetitiva e per intercettare le opportunità che appaiono e scompaiono a velocità sempre crescente nei mercati (ammesso che si chiameranno ancora così), le organizzazioni devono trovare il modo di modificarsi molto rapidamente e, senza essere appesantite da vincoli o preconcetti, abituarsi a riconfigurare rapidamente al proprio interno e nel dialogo con l’ambiente in cui vivono le procedure, i processi, le capacità, le infrastrutture e le risorse. Ma quante organizzazioni sono capaci di farlo? In realtà molte di loro mantengono confini rigidi tra un'unità e l'altra, persistono a strutturarsi per «silos» funzionali e ad accettare che si creino al proprio interno veri e propri “feudi” che esaltando i vantaggi delle rendite di posizione ostacolano il rapido riallineamento delle diverse attività e funzioni indispensabile a un orientamento alla creazione continua di valore. Per non parlare dell’effetto “pensiero unico” che ammorba spesso quelle grandi realtà organizzative che comprendono migliaia di dipendenti, dove si produce un insalubre orientamento alla svalutazione di quella grande ricchezza, almeno secondo quanto possiamo imparare dalla biologia evoluzionista, che risiede nella divergenza e nella differenziazione. E allora che fare? Secondo Hamel, per sviluppare una maggiore capacità di adattamento, le aziende devono organizzarsi in unità più piccole e creare in questo modo strutture più fluide, basate su aggregazioni guidate dai   progetti. Una sorta di azienda organizzata a piatto di spaghetti, come suggerivano Jonas Ridderstrale e Kjell Nordström nel loro divertente, veggente e ispirato Funky business? Forse si, ma quel che é certo è che Hamel ha dalla sua gli esempi: Semco, Gore & Associates e tante altre aziende, più o meno partecipative nel modello di management, che rifuggono dalle sedi elefantiache le quali, va detto, quando le guardiamo, magari da lontano, fanno a noi tutti un effetto un po’ inquietante, con un che di faraonico e imperiale. Certo, tutto questo contraddice numerosi assiomi sulle economie di scopo e di scala ma…  viviamo in tempi interessanti, come dice un altro grande eretico, ma molto più estremista, del nostro decadente pensiero occidentale, Slavoj Zizek.

Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

sabato 5 maggio 2012

Mindfulness è vacanza

Ho capito perché ci piace andare in vacanza. Serve a interrompere la routine. Bella scoperta, direte, ma così come va di moda oggi, ci attacco una bella dimostrazione basata sulle neuroscienze. Con rimando a Mindfulness di Daniel Siegel, sembra che le strutture abitudinarie che vanno, come dice lui, "dall'alto verso il basso", dove per alto s'intendono cognizioni e copioni emozionali stabiliti, ci impediscono di aprirci all'esperienza come tale, ovvero a sensazioni, cognizioni ed emozioni non predeterminate, non solite, non abitudinarie. Come dire: a forza di fare sempre le stesse cose diventiamo stupidi. E ci inaridiamo. E ci stanchiamo. La vacanza ci da nuove impressioni e così ci vivifica, ovvero produce nuovi sentieri neuronali, e questa sensazioni di emergente novità ci dà una nuova energia. Una volta si chiamava ricreazione. Ma mi domando: si deve per forza andare in vacanza? Una volta ho conosciuto un signore, credo in aula, che mi raccontava di fare percorsi diversi per andare al lavoro. Bene. Possiamo fare tutto in modo nuovo, anche mangiare l'uovo al tegamino che mangiamo di solito. Se ci concentriamo bene, scopriremo che non è mai lo stesso. I buddisti raccomandano di osservare come respiriamo. Provare per credere. Ci vogliono almeno dieci minuti, ma scoprirete che ogni respiro è diverso. E costruirete così nuovi sentieri neuronali, senza andare alle Maldive.