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domenica 27 dicembre 2009
I love radio rock
La nave sta fuori, è una radio pirata, e trasmette ore e ore di rock (siamo nella seconda metà dei sixties, ricordate?) con gran godimento del popolo inglese che balla, scopa (o brama di farlo), si ubriaca e gioisce al ritmo mai domo della nave pirata. Il successo è impressionante: più della metà dei sudditi della regina si da all’ebbrezza della musica nuova, si fa presaga di rivoluzioni a venire, trasuda spiriti animali che nessuno tra i lords dell’omonima camera aveva previsto. E’ uno scandalo, un’orrore che va falcidiato, un tripudio di sesso, libertà e trasgressione che va ridotto al silenzio.
Ma chi c’è sulla nostra bellissima nave? C’è un capo o meglio un capocomico tra il depresso l’umoristico e l’algido, peraltro gran leader che tira fuori le palle quando ci vuole. C’è un americano sovrappeso ed esuberante, capace di buttarsi da venti metri nelle gelide acque del Mare del Nord per sostenere una sfida morale. C’è la star dei deejay, amatissimo dalle donne, freddo, sensuale e cattivo come un serpente. C’è il sensibilone che s’innamora e si sposa una donna che ha come unico scopo di intrufolarsi nel letto della star serpentina suddetta. C’è la lesbica d’ordinanza, unica donna a bordo, in quanto non donna, deliziosa e adorabile, che assicura il rancio per tutti. E c’è infine il ragazzo, il giovine di studio, l’apprendista del mestiere e della vita che è stato mandato laggiù da una mamma che compare a metà della storia per rivelare al figliolo che il più ombroso, schivo e malridotto della compagnia è il suo dimenticato e misterioso papà.
Un bel casino, non c’è che dire. Ma è questo il bello. E mentre il nostro ragazzo, conosciuto il papà, si dedica a scoprire le gioie del sesso con la figlia del capo (da lui offertagli con squisito savoir faire aristocratico) la vicenda corre verso la sua tragica conclusione: il governo trova il modo di tagliare le gambe alla radio, gli eventi precipitano e complice una certa prevedibile trascuratezza nella gestione, il vecchio cargo sfiatato si accinge ad inabissarsi per sempre con tutti i suoi eroici, comici, patetici e spaventati guerrieri musicanti e deejay. Ma,colpo di scena, un orda di provvide imbarcazioni guidate da fan, ascoltatori, ragazze innamorate, sostenitori e civili di buoni principi li salva.
La morale l’avete capita, e mi viene da dire soltanto che è bello riscoprirla ogni tanto. La cosa più entusiasmante del film è la sua apparente sgangheratezza. In epoche così tristi va valorizzata: non sappiamo cosa ci porta il domani e nel frattempo è meglio provarci, contro ogni previsione. Per dirla con le parole di Steve Jobs (discorso di Stanford, cercatelo su Youtube): “siate folli, siate affamati”. E che vi guidi l’amore, anzi la passione, per quello che fate.
sabato 26 dicembre 2009
Filosofare
Luciana Regina, Un fare che è pensare
Navigare nel pensiero
Shlomit C. Schuster, La pratica filosofica
La verità
Henning Mankell, Il cinese
lunedì 21 dicembre 2009
L’Uomo che Pensa
Vi è chi ha parlato di “disincanto del mondo” ed è un dato di fatto che oggi sempre più ci troviamo di fronte a una “vacanza del senso”. Difatti non sappiamo più perché (e quindi come) agire, lavorare, riprodurci, amare, lottare, sacrificarci, insomma non sappiamo più cosa volere e nemmeno se vale la pena, anzi per cosa o per chi… vivere o morire. Storicamente parlando ciò avviene in conseguenza del fatto che le tradizionali agenzie culturali – le chiese e i raggruppamenti politici – sono diventate poco credibili. Ma al di là del costrutto intellettuale, dell’analisi e delle modellizzazioni, ognuno di noi vive il disagio del tempo e scopre a volte con sgomento che la “vacanza del senso”, per quanto condivisa con tanti altri (tutti…?), e quindi non semplicemente ascrivibile alla “psicologia”, è tuttavia un’esperienza che brucia e magari fa anche male, di certo inquieta e sprona alla ricerca di una soluzione.
Ma la “ricerca di una soluzione” scatena immediatamente efficientismi manageriali e velleità da problem solver che a volte è meglio scoraggiare. Non si tratta – in questo caso - di poca cosa. Non si tratta di una dissonanza cognitiva da ridurrre con l’uso più o meno retorico di slide, modelli o make up spirituali più o meno esotici e accattivanti… qui ne va della politica e della religione, anzi delle nostre vite e dei nostri rapporti con gli altri, nel privato e nel pubblico (sappiamo distinguerli… oggi?) o sul lavoro. E neppure la psicoterapia può servire: la via “individuale” non funziona, così come quella “collettiva”, perché è all’incrocio delle due che si situa il punto cieco…. Dunque che fare?
Pensare a quel che ci accade. Questo dobbiamo fare. E, per la prima volta nella storia, senza rete. Un po’ come accadde nell’Illuminismo, quando la gente si riuniva nei caffè, perché ciò che si pensava nei soliti luoghi non funzionava più. Oggi abbiamo bisogno di nuove idee e nuovi concetti, nuove immagini… e non funzionerà in questo caso l’outsourcing. Nulla e nessuno può oggi presentarsi alla porta di casa e dirci “sono la soluzione”, anzi, ciò sarebbe criterio certo per giudicarlo parte del problema. Per risolverlo, quindi, c’è un solo modo: cercare una strada, insieme ad altri perché la questione – questo è evidente - ci accomuna. Questo credo sia l’orizzonte “autentico” su cui traguardare nuovi fenomeni come il revival della filosofia, il propagarsi dell’interesse, quello serio, per il buddismo o il taoismo (che tra l’altro alla “vacanza del senso” dà una risposta secca e non occidentale: il senso non c’è, c’è solo il processo, l’acqua che scorre) e perfino i più o meno sinceri interessi delle aziende per i temi etici. Siamo all’alba di un nuovo paradigma di civiltà come sostiene il filosofo Pierre Levy quando parla di “intellligenza collettiva”? Penso proprio di sì… e d’accordo lui, ritengo che il pensiero sarà precisamente la posta in gioco.
domenica 13 dicembre 2009
Vita Nova
venerdì 11 dicembre 2009
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 2
Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.
Comunità significa, a mio parere e un po' a un dipresso, che siamo tutti uniti da uno scopo comune, e che quindi siamo pronti a mettere in gioco tutti noi stessi e tutta la nostra passione. Cittadinanza significa, sempre a mio parere, sentirsi a un tempo appartenenti, responsabili e in qualche misura rappresentanti della comunità. Insomma, per essere icastici, si tratta di avere con la propria organizzazione lo stesso tipo di rapporto che si ha con il gruppo di amici con cui andiamo in bicicletta, o a fare free climbing o a organizzare mercatini temporanei di vestitini usati. Come è possibile realizzare tutto questo in un’organizzazione? La cosa non è così difficile come sembra. Il primo passo da fare consiste nell’accettare l’idea, ovvero, nel fare proprio l’assioma per cui se non c’è passione o impegno…. non va bene. Mi spiego con un esempio. C’è un’azienda americana, Gore & Associates, dove le persone, tutti, lavorano solo su quello che vogliono, per il tempo che vogliono e nel modo che vogliono. Non ci sono capi formali, non ci sono ordini, non ci sono obblighi, e ciascuno lavora solo su ciò che si è impegnato volontariamente di fare. Pazzi? Bè, sono quelli che hanno inventato il Gore-tex…. E allora perchè lavorano? Perchè ci danno dentro? Semplice: per realizzare degli obiettivi in cui credono. Ovviamente anche tutto il resto della struttura e dei processi organizzativi sono coerenti con questa visione: per esempio le retribuzioni sono in gran parte variabili in funzione dei risultati ottenuti dai team. Ma non è normale? Perchè non dovremmo essere premiati o danneggiati in funzione di quanto siamo o non siamo stati capaci di arrivare a target? Non è così nella vita?
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
mercoledì 2 dicembre 2009
Maschere rivelatrici
Problem solving
mercoledì 18 novembre 2009
Il pensiero come un fiore
Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless
domenica 15 novembre 2009
Questioni di cuore
Nulla viene mai detto con chiarezza e in questo sta parte dell’eleganza e della bellezza del film. Ma è evidente che il nostro tragico carrozziere sta cercando di effettuare un passaggio di consegne: proprio per l’amicizia sul filo della vita e della morte che si è creata tra loro due, egli si figura di affidare la propria famiglia, moglie compresa, all’amico. Il quale, scoperto il gioco, dice no, o meglio, se ne va. Salvo poi farsi carico, almeno in parte, degli impegni tacitamente trasferitigli dall’amico carrozziere quando questi, infine, va incontro alla propria annunciatissima morte.
Il film è umano, ambiguo, scabro, sobrio e straziante. Ed eccelle proprio nel descrivere il difficile passaggio delle “consegne”. Il carrozziere, almeno in parte, le impone all’amico, ma forse di questo neppure è del tutto consapevole. Gli manca di rispetto? Forse, ma la questione è di altezza suprema, tale da svellere dal terreno delle consolidate regole sociali i paletti delle ragioni e delle facili decenze. Insomma, di fronte alla morte, quanto sareste disposti a mancare di rispetto a un amico per salvare e fare vivere ancora una parte del vostro mondo (amico compreso)? Fino a che punto sareste disposti a dissimulare e mentire ai vostri cari per perseguire quello che vi sembra il bene maggiore? E quanto sapreste, o saprebbero gli altri nel guardarvi da fuori, discernere in questa vostra condotta tra egoismo e altruismo? Oppure, in altri termini, per usare un ossimoro, quanto può essere egoista l’amore?
Le domande risuonano, lavorano, turbano, tornano in mente… e forse, come si addice davanti ai veri misteri, invece che rispondere è meglio tacere. Oppure, piuttosto, come hanno fatto gli autori di Questioni di cuore (la regia è di Archibugi), narrare. Perché se è vero che in questi casi una descrizione, per esempio delle gerarchie dei beni voluti e implicati dalle scelte dei personaggi (la vicenda può esssere letta dal punto di vista di ognuno), si scontra con paradossi inestricabili, ovvero (secondo il vocabolario filosofico) indecidibili, raccontare una storia, invece, ci permette di mettere le carte in tavola, mostrare le mosse dei giocatori e definire la posta in gioco senza giungere a una conclusione che si rifaccia a una legge. Una storia articola e gioca con temi universali, ma non li esaurisce. E forse, parlando di rispetto, una storia ci ricorda col suo solo narrare, senza legiferare, che il rispetto consiste proprio nel tenere presente che qualcosa sempre ci sfugge, trascende, va al di là di qualsiasi riduzione a una logica o a un calcolo definitivi. Non proprio un mistero, ma quasi: uno spazio che resta libero, in agio, per sempre nuove interpretazioni.
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 1
Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato. Il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.
Che sembra molto ambiziosa. O esagerata. Oppure impossibile… vero? Vediamo… sapete qual è la mission di Google? “Organizzare la conoscenza universale in modo che sia accessibile e utile”. Mi sembra molto bella, nobile e socialmente rilevante. Quindi è possibile rispondere positivamente a questa prima sfida. Va inoltre notato che, a differenza di molte altre mission, quella di Google è distintiva e specifica, si capisce perfettamente cosa ammette e cosa no. E per di più, grazie al Dio degli stakeholders, non tira in ballo il valore per gli azionisti (niente contro sia chiaro, ma c’è in quasi tutte le mission… è esornativo). Insomma quei ragazzi di Google sanno cosa stanno facendo.. e questo, guarda caso, li rende orgogliosi, entusiasti e motivati. Ma bravo, direte voi, stiamo parlando di Google! …e noi che invece facciamo pompe sottomarine? Ahinoi, la grettezza! In verità è sempre possibile contestualizzare il proprio business in un ambito di più ampia e sociale rilevanza… e non è questione di retorica, al contrario, è questione di realismo. Si tratta di pensare a chi è interessato a quello che facciamo, alla nostra ragion d’essere, ai legami sociali che il nostro business comporta. E state certi che al pensarci così, ne viene fuori un valore sociale e perfino nobile (bè, ovviamente dipende dai criteri con cui si definisce la nobiltà). Insomma è un esercizio di pensiero sociale ed etico, una defnizione della propria identità a partire dal motivo per cui gli altri (clienti, fornitori, vicini ecc.) ci danno valore. Provate dunque a chiedervi: cosa dò al mondo? Perché gli altri dovrebbero essere interessati alla mia esistenza? Chi si avvantaggia di me? E perché? E come e in che misura tutto questo è condivisibile e valorizzabile da un gruppo ampio di persone? E se questo gruppo di persone fossero tutti, vale a dire il genere umano, la cosa, il valore sociale del mio business, reggerebbe ancora?
E di una cosa potete stare sicuri: che se non trovate risposte soddisfacenti a queste domande il vostro business non vale gran chè. E varrà sempre meno.
Per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
sabato 7 novembre 2009
Le grandi sfide per il management del XXI secolo - elenco
1. Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato. Il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.
2. Incorporare a pieno titolo le idee di comunità e cittadinanza nei sistemi di gestione. Occorrono processi e prassi che riflettano l’interdipendenza di tutti i gruppi di stakeholder.
3. Ricostruire le fondamenta filosofiche del management. Per creare organizzazioni che siano ben più che semplicemente efficienti, avremo bisogno di attingere agli insegnamenti di campi come la biologia, le scienze politiche e la teologia.
4. Debellare le patologie della gerarchia formale. Le gerarchie naturali, dove il potere procede dal basso verso l’alto e i leader emergono anziché essere nominati, comportano numerosi vantaggi.
5. Combattere la paura e aumentare la fiducia. La diffidenza e la paura sono tossiche per l’innovazione e il coinvolgimento, e devono essere estromesse dai sistemi manageriali di domani.
6. Reinventare gli strumenti di controllo. Per superare il trade-off tra disciplina e libertà, i sistemi di controllo devono incoraggiare il controllo dall’interno anziché i vincoli imposti dall’esterno.
7. Ridefinire il lavoro di leadership. La nozione de “il” leader come teorico decisore è indifendibile. I leader devono essere rimodellati come architetti di sistemi sociali che favoriscono l’innovazione e la collaborazione.
8. Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.
9. Reinventare il processo della formulazione della strategia come un processo in divenire. In un mondo turbolento la formulazione delle strategie deve riflettere i principi biologici della varietà, della selezione e della conservazione.
10. Destrutturare e disaggregare l’organizzazione. Per diventare più capaci di innovare, le grandi organizzazioni devono essere disaggregate in unità più piccole e malleabili.
11. Ridurre sensibilmente l’influsso del passato. I sistemi di management esistenti spesso rinforzano, senza volerlo, lo status quo. In futuro dovranno facilitare l’innovazione e il cambiamento.
12. Condividere il lavoro di stabilire la direzione. Per coinvolgere i dipendenti, la responsabilità della definizione degli obiettivi deve essere distribuita attraverso un processo nel quale il grado di influenza sia proporzionale al discernimento, non al potere.
13. Sviluppare misure di performance olistiche. Le misure di performance esistenti devono essere ripensate, perché non prestano sufficiente attenzione alle competenze umane fondamentali che stanno alla base del successo in un’economia creativa.
14. Allungare gli orizzonti temporali e la visione prospettica dei dirigenti. Scoprire alternative ai sistemi di retribuzione e ricompensa che incoraggiano i manager a sacrificare gli obiettivi a lungo termine per i guadagni di breve periodo.
15. Creare una democrazia dell’informazione. Le aziende hanno bisogno di sistemi di informazione olografici, che diano a tutti i dipendenti gli strumenti di cui hanno bisogno per agire nell’interesse dell’intera impresa.
16. Dare potere ai ribelli e disarmare i reazionari. I sistemi di gestione devono dare maggiore potere ai dipendenti che hanno investito il proprio capitale emotivo nel futuro anziché nel passato.
17. Espandere la portata dell’autonomia del dipendente. I sistemi di gestione devono essere progettati in maniera da favorire le iniziative dal basso e la sperimentazione locale.
18. Creare mercati interni per le idee, i talenti e le risorse. I mercati riescono ad allocare le risorse meglio di quanto non facciano le gerarchie, e i processi di allocazione delle risorse aziendali devono riflettere questo dato di fatto.
19. Depoliticizzare i processi decisionali. I processi decisionali devono essere liberi da distorsioni legate alla posizione e devono sfruttare la saggezza collettiva dell’intera organizzazione, e anche oltre.
20. Ottimizzare meglio i trade-off. I sistemi di gestione tendono a imporre degli aut-aut. Ciò che serve sono sistemi ibridi che ottimizzino più gradualmente i trade-off.
21. Dare libero sfogo all’immaginazione umana. Molto si sa dei fatti che stimolano la creatività umana. Queste conoscenze devono essere applicate meglio alla progettazione dei sistemi manageriali.
22. Favorire le comunità di interessi. Per massimizzare il coinvolgimento dei dipendenti, i sistemi manageriali devono facilitare la formazione di comunità di interessi spontanee.
23. Riattrezzare il management per un mondo aperto. I network che creano valore spesso trascendono i confini dell’impresa e possono rendere inefficaci i tradizionali strumenti manageriali basati sul potere. Servono nuovi strumenti di gestione per costruire e modellare ecosistemi complessi.
24. Umanizzare il linguaggio e la prassi del business. I sistemi gestionali di domani dovranno attribuire altrettanta importanza agli ideali eterni dell’umanità, come la bellezza, la giustizia e la comunità, quanta ne ripongono nei tradizionali obiettivi dell’efficienza, del vantaggio e del profitto.
25. Rieducare la mentalità manageriale. Le tradizionali capacità analitiche e deduttive dei manager devono essere intergrate da capacità concettuali e di pensiero sistemico.
E ora, ricordiamoci della prima:
Fare in modo che il lavoro del management serva un fine più elevato: il management, tanto nella teoria che nella pratica, deve orientarsi al conseguimento di obiettivi nobili e socialmente rilevanti.Credo che sia anche la più importante. E concludo con una domanda: ma come fare? Pensarci non è esercizio da poco… proviamoci. Per chi vorrà seguirmi, in un prossimo post, sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani" (cercatela nei tag a destra), ne discuterò e poi, via via, con successivi post, tratterrò tutte le altre sfide, per trarne una sorta di manuale dell'organizzazione del futuro.
(per maggiori informazioni vedi www.managementlab.com e “Le grandi sfide per il management del XXI secolo” in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore).