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giovedì 29 dicembre 2011
Guerra originaria
domenica 4 dicembre 2011
Charlene Li
mercoledì 7 settembre 2011
Animali storici
Ciò che mi piace di questo grande giornalista è che pensa con la sua testa e si esprime senza giri di parole, in pratica ci dice: le cose sono sempre di più, le registrazioni pure e i supporti di memoria, ovvero le esternalizzazioni della nostra mente, sempre più potenti. Fine della memoria dunque? Ma non lo si è detto anche alla comparsa della scrittura? I somali trent'anni fa sapevano all'incirca 100 numeri di telefono e i popoli senza scrittura avevano una memoria prodigiosa... Credo che la questione non stia in questi termini. Credo che la memoria cambi nel tempo procedure, supporti, modalità di registrazione e quindi anche di gestione, modo di produzione e qualità. Insomma da un periodo storico all'altro di regola non è più la stessa e io per esempio, oggi, non mi ricordo più, a differenza di decenni fa, dati bruti, ma se mai indicatori e processi per trovarli o combinarli o produrli. Da sempre la tecnologia che, secondo Leroi Gourhan, esternalizza facoltà prima precipuamente umane (dalla mano alla zappa, dall'unghiata alla freccia, dal ricordo alla scrittura e al chip), ci sottrae la padronanza delle stesse per aprirci, in compenso, nuove possibilità e nuovi mondi. E bene fa Kapunscinski a ravvisare pericoli per la memoria, ovvero, per meglio dire, trasformazioni.
Ma non credo che l'esito sarà la distruzione della memoria, così come il cavallo e l'automobile non ci hanno privato dell'uso delle gambe, ma semmai aperto il varco allo sport e alla palestra. Piuttosto credo che la questione stia nella trasformazione in atto dei meccanismi di narrazione, di tramandamento e di tradizione, ovvero di storicizzazione. Che stanno cambiando profondamente. Come? Questa mi sembra una buona domanda.... Anche perchè la storia è a mio parere una dimensione propria, specifica e imprescindibile dell'umanità. Come dire: se siamo animali politici è anche perchè siamo animali storici. O no? Possiamo essere non storici?
giovedì 25 agosto 2011
Siamo tutti soggetti postraumatici
Il concetto di soggetto postraumatico e di matrice psicoanalitica ed è stato discusso e sviscerato da Zizek nel suo libro Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). Si tratta di un soggetto che in un certo qual senso non è più tale, ovvero è l’ombra, lo spettro, di se stesso. “In altre parole, quando abbiamo a che fare, diciamo, con un malato di Alzheimer, il punto non è solo che la sua consapevolezza è pesantemente limitata, che l’ambito dell’Io è ridotto, ma piuttosto che non abbiamo letteralmente più a che fare con lo stesso Io. Dopo il trauma emerge un altro soggetto, stiamo parlando a uno sconosciuto” (pag. 424). Ma chi è costui? Che gli è successo? Sappiamo di certo, come si dice, che “non è più lui”. Ma, secondo Zizek, in un modo molto particolare. Praticamente, semplificando, il trauma che rende così piatto e spettrale il soggetto postraumatico è una sorta di ripetizione della soggettivazione vera e propria, che avviene, secondo Lacan, precisamente attraverso la perdita di un’illusione, narcisistica, di essere uno con la Cosa (la Madre). Ma se quella prima tragica esperienza traumatica conduceva a una vita di lavoro e desiderio, perché attraverso la funzione paterna, ovvero la castrazione, il soggetto, per l’appunto veniva ad essere come ciò che restava ancora possibile dopo quella perdita, e solo così era lui, ovvero soggetto, con il trauma che produce il soggetto postraumatico, invece, avviene precisamente la perdita di quella condizione soggettiva così dolorosamente conquistata. Insomma si ripete la perdita, ma stavolta, si perde tutto. Un po’ come in certi racconti kafkiani, sto pensando a Davanti alla legge, in cui si patisce di una condizione dura e dolorosa, per scoprire poi alla fine che ci viene tolta anche quella. E in modo inappellabile. Esattamente come accade ai migranti quando vengono imprigionati o costretti in condizioni subumane. Insomma questa seconda perdita è ben più dura e definitiva, perché ci toglie la possibilità di lavorare, di darci da fare, di cercare una soluzione. Game over. Niente da fare. La porta si chiude. Fine della speranza.
Disperazione: questa è la condizione del soggetto postraumatico. I suoi archetipi, non a caso, sono il “muselmann” completamente inebetito del lager, il malato di Alzheimer, chi è stato colpito da una catastrofe insuperabile, sia essa fisica, mentale o simbolica e culturale, e si ritira nel nulla dello stordimento e dell’anestesia (penso per esempio all’alcolismo presso gli amerindi o gli aborigeni australiani).
Ma questo inebetimento, questa insensibilità, questa anestesia, non sono il nostro bagno di cultura quotidiana? Non siamo stati tutti rapinati e scippati di qualcosa di “nostro”, del senso della vita, del nostro vero io, di una speranza, di un afflato di autenticità che a malapena ricordiamo? E non ci rifugiamo noi tutti in pratiche ripetitive e istupidenti come guardare la televisione, fare cose trite e senza valore, ripetere come automi l’identico senza avere più nessuna voglia e nessuna speranza, se non quella vogliuzza per l’oggi e quella per il domani, una birra e un scopatina, l’ultimo film di pinco pallino (se vuoi far l’intellettuale), una corsetta in palestra o un flirt, quelle vogliuzze dicevo, che Nietzsche ha descritto come il placido e inconsapevole inferno dell’ultimo uomo?
E siccome l’ultimo uomo è l’ultimo baluardo contro l’avvento del superuomo… non varrebbe la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo? Come diceva Marx, parlando alla fin fine della stessa cosa (lui la chiamava comunismo), c’è un momento in cui non ce n’è più per nessuno e le chiacchiere non bastano più: hic Rhodus, hic salta!
E si può fare, perché in fondo non è vero che siamo soggetti postraumatici: ci turbano tanto, loro, i soggetti postraumatici, perché in realtà li mimiamo (o forse loro imitano noi…) e ci ricordano che a forza di recitare questa farsa… potremmo davvero diventare così!
mercoledì 24 agosto 2011
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 8
Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 8 è:
Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.
In altri termini: democrazia. Non solo e non esclusivamente, certo. Diciamo allora… idiofilia? Amore e attenzione per ciò che è unico, strano, diverso? Questo è il compito. Perché la diversità è ricchezza, ulteriore possibilità, spazio di gioco e di manovra, brodo di coltura di nuove idee, soluzioni, procedure. Parlando da filosofo (che si è formato su Derrida, il cui testo forse più importante si intitola La differance, per cui figuratevi quanto sono d’accordo) la differenza è la vita, è l’origine di ogni cosa (lo direbbe anche Hegel). Ma scendiamo dai cieli dei filosofi. Che significa in pratica? E come si fa? Per quanto riguarda la prima domanda non mi viene in mente niente di meglio che rimandare al celebre discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, che si conclude tra l’altro con l’esortazione a essere folli (sic!). Per quanto riguarda la seconda, posto che siamo d’accordo con quanto detto sopra, il problema è trovare il modo di ridurre i costi di transazione, negoziazione e traduzione. Si, perché, se è vero che diversità, stranezze ed idiosincrasie sono una risorsa, la questione sta nel come accedervi in modo efficace ed efficiente a costi bassi, evitando nel contempo che la loro stessa esistenza e vitalità non comporti costi o problemi (in parole povere che la differenziazione non combini casini). Ora, come dice Gary Hamel nel suo già più volte citato Il futuro del management, noi esseri umani abbiamo già da tempo inventato sistemi per valorizzare le differenze senza fare troppa confusione. Sono sistemi complessi, capaci di grandi fluttuazioni interne e, insieme, efficaci autoregolazioni. Sono le grandi città, i movimenti religiosi, i mercati, le società democratiche. C’è poi la vita, ovvero gli organismi biologici e le popolazioni (di merluzzi, di gnu, per esempio), che è un’altra e forse ben più importante maestra di come fare un sacco di cose tollerando una complessità e una differenziazione interna stupefacente. Si, certo, si dirà, ma a parte il fatto che non sempre queste cose hanno successo, come fare per organizzare un’azienda in quel modo? Con quali vincoli, regole ecc.? Ora, se è vero che città, mercati e così via non sempre hanno successo… bè, non fatemi dir delle aziende – vi ricordate i fratelli Lehman? Quanto alla questione vera e propria, quella relativa all’organizzazione di un’organizzazione così “disorganizzata”, lo strumento c’è. E non è soltanto un mero strumento, ma un modello, un paradigma: si chiama web 2.0. Le organizzazioni sono dei sistemi sociali? Che si attrezzino da social network!
Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
domenica 21 agosto 2011
La fidanzata automatica
Oppure, ipotesi estrema, forse potrei volere una fidanzata automatica, a condizione di non avere più nulla da aspettarmi da quelle vere. Che è in fondo la condizione di quello che chiamo il soggetto postraumatico (vedi i tag omonimi): la disperazione, il futuro azzerato, l'assenza di desiderio... se non mi aspetto più nulla, allora una fidanzata automatica è perfetta. Mi allevia il dolore. Come lo Xanax. Ma ecco che, forse, lei potrebbe rivelare, in modo sottile, un volto nascosto, perchè in fondo chi può essere certo che non possa esprimere una soggettività? A volte è nel più profondo degli abissi della disperazione che può nascere la speranza e là dove c'è il pericolo cresce ciò che salva (Holderlin citato spesso da Heidegger). Già, perchè forse ancora bene non sappiamo cosa sia un soggetto (James non poteva conoscerlo, ma se avesse letto tutto quello che ci ha detto Asimov sui robot... per non parlare di Philip Dick, o dell'Odradek di Kafka).
Tu sarai fuori di te
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che ti indicherò."
Qui sta l'essenza della riflessività, che non è la ripetizione dell'identico, ma qualcosa in più, perché c'è la ripetizione.
sabato 20 agosto 2011
C'è un prezzo per tutto
Ora, posto che si stanno decrivendo gli stulti, ovvero coloro che "si trovano esattamente nella posizione opposta a quella filosofica", e che tale descrizione va riferita al periodo ellenistico, ciò che mi ha colpito è che questa descrizione va benissimo per noi. Non facciamo esattamente così? Non è questo uno dei sintomi del (o il) male del nostro tempo? E trovo molto interessante che l'essenza della stultitia risieda nell'oblio... Ed è per questo che il soggetto che ha l'alzheimer, ovvero quello che io chiamo sulla scorta di Zizek il soggetto postraumatico, è oggi così importante per noi: è il nostro specchio, in fondo, quello che noi siamo. Senza storia, senza (vero) futuro. Insomma, rincoglioniti. Ma la domanda importante a questo punto è: cosa ci ha condotto qui? Qual'è il punto chiave? In un modo un po' fortuito e un po' pop, se vogliamo, ho trovato una risposta in un libro di un autore che ho già citato, Qiu Xialong, che s'intola Ratti Rossi. Siamo in Cina negli anni della transizione e si sta parlando del fatto che si pagano le celebrità per farsi fotografare con loro. Il protagonista conclude sconsolato: "C'è un prezzo per tutto". E il narratore commenta: "Ed era quello il problema. Si rendeva omaggio all'ideologia comunista solo a parole. Nonostante il Quotidiano del popolo e i documenti di Partito, la realtà sociale era che tutti, dal primo all'ultimo, pensavano a se stessi." Ci sarebbe ancora molto da dire, ma voglio tagliare corto con una domanda: dove si è e come si è quando la vita stessa di una persona (di tutte le persone, forse...) è diventata una merce?
domenica 14 agosto 2011
Filosofia come politica
sabato 13 agosto 2011
Cornici
Vittorio Buttafava
Santi e animali
Anthony De Mello, Il messaggio
Lode alla noia
"Tutta l'infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restarsene tranquilli in una stanza."
Blaise Pascal, Pensieri
Io sono molto d'accordo: i momenti migliori sono quelli in cui si sospende la necessità ossessiva di produrre, e ci si consegna all'inutilità. Che scandalizza: provate a rispondere "niente, mi lascio vivere" a chi vi domanda "cosa fai di bello nella vita"? E questo mi fa venire in mente un altra cosa: l'ailanto di Chuang Tzu (meno noto del cuoco), di cui il noto saggio taoista tesse le lodi dicendo che poiché non dà frutti e il suo legno non arde bene, siccome è dunque del tutto inutile, cresce prospero e ci può dare di che riposare sotto la sua fresca ombra.
Ho sempre desiderato essere un ailanto.
Capitalismo
Frédéric Beigbeder, 99 Francs
venerdì 12 agosto 2011
Tra scienza ed esperienza (di sé)
Nello splendido corso del 1981-1982 intitolato L’ermeneutica del soggetto, Michel Foucault, verso la fine, nella lezione del 24 Marzo, si lancia in un grande affresco storico dicendo che “in Occidente, in fondo, sono state conosciute e messe in atto tre grandi forme di esercizio del pensiero, di riflessione del pensiero su se stesso, vale a dire tre grandi forme di riflessività”. Esse sono, continua Foucault, la memoria; esercitata dagli antichi greci come strumento per ritrovare le eterne verità dimenticate dall’anima; la meditazione, esercitata nel periodo ellenistico romano e quindi, in modo un po’ diverso, nel cristianesimo, per avere cura di sé e formare il soggetto come soggetto di verità, ovvero dai pensieri e dalle parole coerenti con gli atti e le opere; e il metodo, ovvero il dispositivo di nascita cartesiana e poi al cuore della scientificità moderna, secondo il quale si reperisce a forza di dubbi radicali la certezza sulla quale edificare la conoscenza. E fin qui tutto bene, anche se chiaramente molto semplificato. Ma vi sono delle belle complicazioni. Soprattutto quella per cui se per l’appunto col cartesianesimo “il legame tra l’accesso alla verità, divenuto sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato credo, definitivamente spezzato” (lezione del 6 Gennaio), ecco che subito dopo Foucault aggiunge che “è inutile che vi dica che, quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente interrotto, non ci credo neanche un po’”, per proseguire poi con un inquadramento di fenomeni quali il marxismo e la psicoanalisi nel più ampio alveo di una sorta di sopravvivenza di quella trasformazione del soggetto ad opera del soggetto stesso che l’autore non esita, proprio in queste pagine, a chiamare “spiritualità”. E per di più, in tutta questa storia, Foucault non trascura mai di fare riferimento, senza mai approfondire a causa dei limiti storici dell'argomento del corso, al cristianesimo che, in sintesi, fa evolvere la meditazione verso un dire la verità su di sé – dove possiamo indovinare, finalmente con chiarezza, le radici cristiane della psicoanalisi.
Scusate per il lungo riassunto, ma tutto questo mi serve per porre una questione: dove siamo oggi? Qual è la forma di soggettività, la forma di “riflessività” (parola che sposo in toto) che ci contraddistingue oggi? Perché una cosa è certa: l’idea che sia possibile accedere alla verità su di sé mediante la scienza (il metodo), se mai ha avuto corso legale, oggi è più che mai messa in questione dal fatto che da almeno mezzo secolo è chiaro a tutti come il soggetto sia implicato in ogni proferimento (anche in quelli scientifici). Non si tratta soltanto dell’errore di Cartesio, come direbbe Damasio, ovvero dell’esclusione delle emozioni e della situazionalità, ma del fatto che ogni frase “è detta da un osservatore”, come direbbero Maturana e Varela, per non parlare di tante altre questioni note, che vanno dal teorema di Goedel, al principio di indeterminazione di Heisenberg, dalla sovradeterminazione del senso di matrice freudiana al paradossale rapporto che lega il soggetto dell’enunciato con quello dell’enunciazione in Benveniste (mi si scusi l’esibizione di erudizione, peraltro media e modesta, ma qualche riferimento va pure dato).Insomma non siamo mai fuori gioco, non c’è un terreno di gioco esterno a noi e il soggetto qualunque cosa faccia o dica, nel contempo si divide e trasforma sia se stesso che il mondo. Fine del sogno hilbertiano di calcolare tutto. Anche perché, come mostrò magistralmente per illustrare il concetto di complessità uno scrittore a me caro, Samuel Delany, in uno dei suoi romanzi (credo si tratti di Stella imperiale), se fai il dizionario del mondo, quando hai finito sono sorte già molte parole nuove e devi pure dare un nome al dizionario, aggiungendo ad esso una parola che, aggiungendosi alle altre, lo cambia…
E dunque? Siamo al ritorno della spiritualità? Certo i segni dei tempi depongono a favore: e cosa mai cercherebbero, infatti, se non proprio una via di trasformazione di sé, tutti coloro che si rivolgono a sette e buddismi, analisi transazionali e psicologie positive, coaching e psicoterapie varie, per non parlare di chi (avis rara) sperimenta la consulenza filosofica? D’accordo… ma che caratteristiche ha questa nuova (nuova?) forma di riflessività, ovvero di soggettivazione che pare (forse) affacciarsi tra noi a partire (direi) dalla postmodernità? Foucault ci ha dato qualche indicazione, sparsa qua e là nei suoi testi, e voglio evocarne una, che ci regala proprio alla fine del corso in questione (sempre la lezione del 24 Marzo), dicendo che “la sfida lanciata dal pensiero occidentale alla filosofia (…) consiste nel chiedere in che modo ciò che si dà come oggetto di sapere articolato sul dominio della tekhne [qui Foucault sta alludendo al mondo], possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta, si mette alla prova, e con difficoltà giunge a compimento, la verità di quel soggetto che noi stessi siamo. E in che modo il mondo, che si dà come oggetto di conoscenza a partire dal dominio della tekhne, possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta e in cui si mette alla prova il “se stessi” come soggetto etico di verità”, specificando poi che si tratta di capire come sia possibile che il mondo sia ad un tempo oggetto di conoscenza e luogo dell’esperienza (trasformativa) del soggetto. Detta così sembra che si ripercorra la vecchia distinzione tra scienze della natura e dell’uomo, o per dir meglio, nomotetiche e idiografiche (secondo la terminologia di Windelband), ma v’è un passo di Le parole e le cose in cui Foucault (decenni prima) ci evoca la struttura della soggettività moderna ai suoi albori riferendosi a una sua icona celeberrima: Don Chisciotte, che ha scienza (ha letto molti libri, fino a perdere il senno) e non esperienza, e Sancho Panza, che ha esperienza (parla per proverbi e ha senso pratico) e non scienza. Mi ricordano il cieco e lo storpio, devono stare insieme per procedere, ma a differenza loro, senza integrarsi gran ché, tant’è che il loro è un dialogo tra sordi, e per questo comico. In questo stare insieme, come dice Foucault, ad un tempo, e in questo difficile dialogo tra scienza ed esperienza, e nel vuoto attorno a cui esso si articola, credo si celi la chiave interpretativa per decifrare l’enigma della nostra, contemporanea, forma di soggettività.
mercoledì 10 agosto 2011
La vita e la verità
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 7
Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 7 è:
Ridefinire il lavoro di leadership. La nozione de “il” leader come eroico decisore è indifendibile. I leader devono essere rimodellati come architetti di sistemi sociali che favoriscono l’innovazione e la collaborazione.
Ed eccoci finalmente! Il sacro totem della leadership è stato tirato in ballo! Del resto il nostro Gary Hamel (ricordiamo che è dal suo libro Il futuro del management che abbiamo tratto la sostanza delle 25 sfide per il management di domani) non poteva certo farne a meno. Ma vediamo di approfondire un po'. In primo luogo vorrei ricordare che quanto sopra presuppone uno spostamento lungo quello che è chiamato lo spectrum della leadership dal polo gestione-controllo verso il polo coaching-guida. E come potrebbe essere altrimenti? Se infatti bisogna generare innovazione, e per farlo è necessario un clima di collaborazione, ecco che il nostro leader da intrepido condottiero di truppe più o meno insipienti, inconsapevoli e illetterate si deve trasformare in leader politico di un popolo che sia in grado di essere soggetto (soggetto... bell'ambiguità di senso vero?). Anzi, a ben pensarci non deve essere un leader politico, ma un politico vero e proprio (se mai esiste, in questa accezione... diciamo di sì, se pensiamo a Gandhi, o magari a qualche grande statista del secolo scorso), ovvero un architetto di società, o meglio, come dice Gary Hamel, di sistemi sociali. Che significa? E soprattutto: come farlo? Posso dare solo qualche traccia di risposta. In primo luogo mi viene a dire che se si vuole far sì che tutti diano il meglio e tutti insieme si vada da qualche parte che abbia un senso, la prima cosa da fare è per l'appunto garantire che le persone sappiano cosa fanno e perché, qual'è l'obiettivo comune e addirittura la ragion d'essere del loro stare insieme a fare le cose che fanno e faranno. Il che mi fa venire in mente che forse servono degli ideali, dei valori comuni, dell'entusiasmo, della passione, della capacità di sacrificio. E in primo luogo da parte del leader stesso (mi viene in mente Gesù, del resto Hamel stesso dice che le religioni sono un buon modello di organizzazione, basata sulla passione). Inoltre, per fare tutto questo credo che il nostro leader debba essere credibile e autorevole. Forse anche amato e ammirato, perché no, ma solo in modo.... razionale, ovvero perché credibile e autorevole, il che in parole povere significa che... "mi posso fidare di lui". E per dirla ancora in un altro modo, a un tempo più semplice e più filosofico (il riferimento è agli stoici), significa che il nostro leader fa quello che dice e dice quello che fa. Insomma è (come diceva Foucault nel suo splendido corso su L'ermeneutica del soggetto) un uomo di verità. E immagino che a questo punto ci sia chi, leggendo, sobbalza sulla sedia: verità? In azienda? Ma dai... Ebbene, si, è quello che sostengo. La proposta ha a che vedere con un tipo di leader e manager "in pubblico" (ricordate il riferimento alla politica poco sopra?), che non è solo una mia invenzione e di cui potete trovare esplicazione e riferimenti nel mio (e di Neri Pollastri) libro Il filosofo in azienda (che potete trovare qui, con una presentazione invece qui), dove tra l'altro sulla leadership ci sono diverse pagine. E per concludere, come sempre vi accenno la litania, o se volete la critica: ma perché di queste indicazioni spesso e volentieri non si prende atto? Sto scrivendo mentre i mercati crollano... speriamo non sia necessario toccare il fondo. Ma qual è il fondo?
Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.
martedì 2 agosto 2011
Mi spezzo
domenica 31 luglio 2011
Natura Inc
giovedì 21 luglio 2011
L'importanza della fiducia
“I team che vivono in una cultura di responsabilità, collaborazione e iniziativa sono più portati a ritenere di potere affrontare qualsiasi tempesta. La fiducia in se stessi, insieme alla fiducia reciproca e nell’organizzazione, motiva i vincitori a determinare quella spinta in più in grado di fornire il margine per la vittoria. La lezione per i leader è chiara: costruite la pietra angolare della fiducia – responsabilità, collaborazione e intraprendenza – quando le cose vanno bene, e i risultati arriveranno facilmente”.
Rosabeth Moss Kanter, Harvard Business Review Italia, 05 2011 p. 6
Tutti insieme
martedì 19 luglio 2011
Nachtraglich
domenica 17 luglio 2011
Il soggetto postraumatico: il vuoto interiore
“Ultimamente, Halliday si era reso conto di essere persino in grado di convivere con la propria non-esistenza, visto che non aveva senso piangere troppo a lungo la scomparsa di qualcosa – vale a dire di un se stesso – che nemmeno riusciva più a ricordare. Tutto ciò costituiva un motivo di ansia, ma di un’ansia ormai vecchia di giorni. Quello di adesso invece era un sintomo fisico. Riguardava l’esatta metà della testa, cranio e cervello, ed era una sensazione semplicemente non-definibile. Anzi, la si sarebbe potuta descrivere come l’improvvisa scomparsa di una sensazione talmente consueta e continua da non essere più percepita, come un suono di cui ci si accorga solo nell’attimo in cui si interrompe.” Il motivo per cui ho riportato questo passo di Amsterdam di Ian McEwan è che credo ci possa introdurre al mondo del soggetto postraumatico, di cui vorrei occuparmi per un po’, annunciando fin da subito che intendo per soggetto postraumatico da una parte quello che risulta da stress profondi e massivi, come per esempio un’esplosione, ma anche vi vedo, dall’altra, con il conforto di autori quali Zizek e Agamben, il paradigma della nostra condizione ipermoderna. In particolare, nel brano citato sopra, trovo interessante che il considerarsi inesistente sia cosa consueta, esattamente come accadde a noi nello scorso secolo con i paradossi del cogito cartesiano ovvero del soggetto moderno, che si scoprì per l'appunto inesistente, o per lo meno inconsistente, diviso e straniero a se stesso. Ma la novità, la cosa in questione, sta nella diversa percezione che s’annuncia, quasi subdolamente o meglio, in modo quasi strisciante, inapparente, asemantico: è sparito qualcosa di quasi-fisico e a questo qualcosa di quasi-fisico sono legati da una parte l’idea di una sensazione “consueta e continua”, come dire, una sorta di base continua (forse il cogito stesso, azzardo, anch’esso peraltro, come detto poco sopra, consueto), dall’altra la scomparsa di un sentire, o meglio forse del sentire stesso, ovvero del sentirsi sentire. Che il romanzo di McEwan si apra con una fulminante morte per Alzheimer non mi pare a questo punto un caso. Come non credo sia un caso che poco dopo, il nostro vacuo Halliday si senta meglio perché “adesso che era di nuovo in mezzo alla gente, immerso nel proprio lavoro, il vuoto interiore non lo affliggeva più”. Cosa abbiamo perduto? Perché la vita ci sembra senza senso? Cosa possiamo fare al riguardo? Credo che condividiamo tutti questi interrogativi. Come pure l'assenza di risposte. E forse vale la pena di cercarle.
giovedì 14 luglio 2011
Amore e Saggezza
Sri Nisargadatta
domenica 3 luglio 2011
La bellezza é metafora
sabato 25 giugno 2011
Il nulla del nulla
Vita e sopravvivenza
martedì 7 giugno 2011
Le questioni più scottanti
Husserl in Die Krisis der europäischen Wissenschaft und die transzendentale Phänomenologie (trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002) scriveva “Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso e l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale”.
Mi colpisce che Husserl parlasse così già nel 1954, perché la questione posta in questo modo é comprensibile solo sullo sfondo della nostra contemporanea civiltà - e dunque aveva visto bene e abbastanza in anticipo. Nessun'altra civiltà si é infatti mai ritrovata di fronte al problema dell'assenza di senso, proprio perché il "senso" è un costrutto della civiltà stessa. La cosa rimarcabile é che noi abbiamo prodotto una civiltà che non fa più la civiltà, ovvero non si pone come culla del senso.
Siamo una civiltà senza senso. E dunque ci manca.
lunedì 30 maggio 2011
Gerarchia o comunità?
"Le gerarchie sono estremamente efficaci per aggregare lo sforzo. Ma quando bisogna mobilitare le capacità umane, le comunità fanno meglio delle burocrazie."
Gary Hamel, Il futuro del management
lunedì 16 maggio 2011
La vita dei morti
martedì 19 aprile 2011
Vitali malati di Parkinson
domenica 10 aprile 2011
Socrate, diglielo a Berlusconi
Casa nostra
mercoledì 30 marzo 2011
Vita e morte
martedì 29 marzo 2011
La trappola
lunedì 28 marzo 2011
Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 6
venerdì 11 marzo 2011
Vita, morte e identità
Paul Auster, Nel paese delle ultime cose
L'aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell'edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo - e il libro - è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: "La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata".... insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l'identità del rimpiazzato. Un po' come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v'è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l'aforisma da cui sono partito inizialmente:
"Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare".
(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo... forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)
Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell'identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato...)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L'incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l'assenza di speranza?
domenica 23 gennaio 2011
La nostra meritata Ruby
- Vedi, ogni popolo... ha le mignotte che si merita.
domenica 9 gennaio 2011
Smisurata preghiera
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità
per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità
ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere"
... è molto bella anche dall'inizio, ma questa seconda metà mi fa venire i brividi, soprattutto la prima strofa e la chiusura. Mi ci ritrovo molto ed è l'ultima composizione che Fabrizio De Andrè ci ha lasciato: il suo ultimo testamento, il più vero, forse.
(per chi non sa da dove viene - accade - il titolo del post è il titolo della canzone, che è l'ultima di Anime Salve... auguri di salvezza anche a te che mi leggi). Comunque eccola qui, e pure tutta:
sabato 8 gennaio 2011
Sempre nuovo (Vita Nova)
"I significati devono essere costantamente riletti e ricompresi."
Heinrich Zimmer, Il re e il cadavere, pag. 16
Heinrich Zimmer, un grande studioso di cultura indiana molto amato dall’insigne mitografo John Campbell, ci parla nel suo postumo “Il re e il cadavere” della relazione tra il dilettantismo, la generatività propria dei simboli e la necessità del rinnovamento continuo. “La caratteristica del dilettante infatti” scrive Zimmer “ sta nel dilettarsi della natura sempre preliminare della sua comprensione, che non raggiungerà mai il suo culmine. Ma è proprio questo, in definitiva, l’unico atteggiamento corretto di fronte alle figure che ci sono giunte dal passato più lontano”, continua lo studioso alludendo ai capolavori della grande narrativa universale, da Omero alle fiabe della tradizione popolare. “Sono loro”, prosegue, “gli eterni oracoli della vita. Devono essere interrogati e consultati daccapo a ogni epoca, e ogni epoca li avvicina col suo tipo di ignoranza e di comprensione, la sua serie di problematiche, le sue imprescindibili domande. Poiché le trame della vita che noi del nostro tempo dobbiamo tessere non sono quelle di nesuna altra epoca, i fili da intrecciare e i nodi da sciogliere sono molto diversi da quelli del passato. Le risposte già date, perciò, non ci possono servire. Le potenze devono essere riconsultate direttamente – di nuovo, e poi di nuovo ancora. Il nostro compito principale sta nell’apprendere non tanto quanto si dice esse abbiano detto, quanto il modo di avvicinarci a loro, il modo di evocare da loro nuove parole, e poi capirle.Di fronte a un simile compito, dobbiamo restare tutti dilettanti, che ci piaccia o no”.
Quello che voglio proporre è di pensare non solo le “figure che ci sono giunte dal passato più lontano” come tali “oracoli” da consultare e riconsultare sempre, ma di considerare così, quali inesauribili generatori di significati, anche i concetti o le idee (tralascio la disquisizione teoretica sulla differenza tra i due). Mi rendo conto che ciò implica da una parte equiparare, per scendere al particolare, il concetto di “giustizia” all’omonimo arcano maggiore dei tarocchi e, dall’altra, generalizzando, avvicinare molto, o addirittura sovrapporre nozioni tra loro distanti come quella di concetto e quella di simbolo (da intendersi qui nella sua accezione junghiana, romantica, ermeneutica, come tesoro inesauribile di un sovrappiù di senso mai del tutto espresso). E mi rendo conto che questa equivalenza è molto arrischiata. Tuttavia, evitando per ora di addentrarsi in analisi teoriche, l’esperienza del sempre nuovo riscoprire un concetto, di ritrovarlo rivestito di nuovi panni, di riscoprirlo ogni volta uguale e insieme diverso a partire dal tipo di interrogazione che gli poniamo, è un’esperienza comune nelle pratiche filosofiche. Anzi è forse l’esperienza più tipica di queste pratiche. In ciò tra l'altro è racchiuso uno dei sensi del titolo di questo blog: Vita Nova.
Filosofia per tutti
Ermanno Bencivenga, La filosofia come strumento di liberazione (pag. 204)
Sono d'accordo... qualcuno mi dà una mano? Magari lo dico a Bencivenga stesso: se lo propone vorrà anche farlo...
domenica 2 gennaio 2011
Opinioni e politica
Amore mio
“Amore mio, non ho parole per scrivere questa lettera… la sto scrivendo nel vuoto dello spazio. Forse al tuo ritorno non mi troverai. Allora questa lettera sarà per te il mio unico ricordo… La vita può davvero essere lunga. Com’è duro e lento per noi questo destino di morire soli. Come può questo destino toccare a due esseri inseparabili? Cuccioli e infanti, quando ce lo siamo meritato? Tu hai meritato questo, angelo mio? Tutto continua come prima. Non so nulla. Sì, invece, so tutto… ogni giorno, ogni ora della tua vita mi appaiono chiari e distinti come in un delirio… Nel mio ultimo sogno ti compravo del cibo in un sordido ristorante d’albergo. Gli uomini intorno a me erano perfetti sconosciuti. Dopo averlo comprato mi rendevo conto che non sapevo dove portarlo, perché non so dove sei… Quando mi sono svegliata ho detto a Sura: “Osia è morto”. Io non lo so se tu vivi ancora, ma dopo quel sogno ho perduto ogni tua traccia. Non so dove ti trovi. Mi puoi sentire? Sai quanto ti amo? Non potrei mai dirti quanto ti amo. Neanche ora riesco. Parlo con te, solo con te. Tu mi sei sempre accanto, e io che sono sempre stata così dura e irascibile, e non ho mai saputo piangere semplici lacrime… ora io piango e piango e piango ancora… Sono io: Nadia. Dove sei tu?”
Da una lettera di Nadeźda Mandel’štam a Osip Mandel’ štam, datata 22 Ottobre 1938 e mai spedita…
Mi viene da piangere, anche a me. L’ho riportata perché penso che ci faccia capire cos’è l’amore. Ma devo anche ringraziare Paul Auster: è lui che ci fa conoscere questo pianto, quest’assenza presente, nell’ultima pagina di un grande libro: L’invenzione della solitudine. Il vero amore comporta solitudine?